Mordere il cielo
Alla ricerca delle emozioni tra negazione e paura
Per capire la metafora con cui Paolo Crepet ha intitolato il libro bisogna cogliere e spiegare le ragioni di quelle contraddizioni esistenziali a cui abbiamo dato il nome di ‘complessità’ per connotare il presente: un limbo indeterminato che contiene il tutto e il suo contrario, dal negazionismo, all’indifferenza, dalle incertezze, alle paure, al rancore, all’ignavia che ci rendono isolati e simili alle monadi di leibniziana memoria. L’omologazione culturale spinge verso i luoghi comuni: è più facile usare il pensiero pensato da altri che fare appello alla ragionevolezza e al pensiero pensante, dovrebbe essere questo il tabernacolo che racchiude le nostre irripetibili identità ma risulta più facile affidarsi alle idee e ai modelli già in circolazione. Questo risparmio di fatica può costarci una involuzione irreversibile. Sarà un refrain ricorrente ma è indubbio che l’utilizzo sempre più intensivo delle tecnologie ha provocato una sorta di anestesia dell’anima e della mente mentre dai codici semantici, simbolici ed espressivi utili per comunicare va gradatamente scomparendo l’alfabeto del cuore e dei sentimenti. Crepet non nega l’utilità del progresso scientifico ma ad una condizione: che sia sempre l’uomo ad impugnare il timone della vita e a orientarne la rotta. Osservando il futuro non è difficile preconizzare – ne aveva già scritto Heidegger – che ci troveremo di fronte ad una realtà distopica, “sdraiati su un divano ricevendo pasti da un drone, gli occhi coperti da visori, i sensi convertiti da algoritmi”. Non si tratta di una immaginifica visione catastrofica. ma di una deriva già innescata nel presente: essa potrà alterare ruoli e violentare le età, quelle coordinate spazio-temporali che costituivano un tempo la speranza di orizzonti rassicuranti. Si capisce leggendo perché le conferenze di Crepet registrino sempre il sold out: egli si fa interprete e portavoce di una distorsione esistenziale che indistintamente percepiamo senza averne sovente consapevolezza. A cominciare dall’età infantile: leggendo il libro si coglie un’attenzione particolarmente avvertita verso i bambini e le bambine. Privati della libertà di giocare in modo fantasioso e creativo, orfani delle fiabe (alle quali viene da tempo attribuito un secondo fine recondito, una trama del male e dei soprusi, secondo il politicamente corretto), adultizzati in fretta – perché tutto si deve avere presto, anzi subito- strumentalizzati dal mercato e dalle logiche commerciali e del profitto ma anche prime vittime delle distorsioni epocali e delle violenze emergenti. Crepet si riferisce senza mezzi termini alle guerre in atto di cui i minori sono le prime, più esposte vittime, ai loro corpi martoriati, all’innocenza rubata, al furto della loro identità nativa, all’essere immersi in una realtà brutale di cui percepiscono solo le paure e le angosce, le privazioni degli affetti, della casa, della spensieratezza tipica dell’età, terrorizzati e brutalizzati dagli orrori di una violenza inaudita e criminale che non si riesce a fermare. Il mio primo giorno di lettura del libro ha coinciso con il bombardamento dell’ospedale pediatrico di Kyiv, un atto spietato che ha raggelato il mondo. Ebbene con grande sorpresa nelle pagine del libro di Crepet ho trovato – come una sorta di intuìta e sensibile predizione – il riferimento alla ferocia rappresentata dal “bombardamento di un ospedale pediatrico”. Una straordinaria premonizione che si è avverata mentre la leggevo. Ma non manca il nostro autore di rimarcare la discrasia, il gap, la frattura tra una cultura delle parole, delle narrazioni retoriche e dei documenti istituzionali che enfatizzano la primazia dell’infanzia e la realtà di un mondo che sta conculcando nei fatti il loro opposto e disapplicando queste roboanti affermazioni di principio. Bambine e bambini sono i protagonisti sottesi dello svolgersi delle pagine del libro. Ma ne sono anche gli interpreti principali, a cui Crepet presta la sua attenzione di psichiatra, sociologo ed educatore. Senza dimenticare la decadenza dei ruoli genitoriali e della famiglia, la strada intrapresa dalla scuola - già a partire da quella dell’infanzia – dove tecnologie, burocrazia, organizzazione soffocante e irregimentata svuotano il senso della funzione educativa. Dobbiamo anteporre ai tablet e agli smartphone una sana e necessaria educazione sentimentale che non consiste in una materia o in una disciplina calendarizzata ma in un approccio che privilegi la graduale maturazione dell’identità di ciascuno in un contesto dove l’empatia sia la chiave di accesso all’apertura verso gli altri, alla promozione delle relazioni umane e del rispetto, dove si vada a scuola volentieri (alunni e docenti) per riorientare la pedagogia e l’educazione verso ciò che è giusto e bello. Conosco Crepet per essere uno dei più onesti, sinceri e spietati critici verso la pervasività tecnologica nella formazione delle menti e dei cuori: ricorda l’esempio della Svezia (ma- aggiungo- ancor prima la Finlandia) dove le autorità politiche e scolastiche hanno deciso per una radicale inversione di rotta dopo aver verificato i danni provocati dall’abbandono del corsivo: via i tablet e ritorno alla penna e al cartaceo. È doveroso rimarcare che la deriva intrapresa nel sistema scolastico italiano sta gradualmente abbandonando la tradizione educativa ereditata per abbracciare la palingenesi delle tecnologie e il loro precoce utilizzo fin dal primo livello di scolarizzazione. Crepet – e sommessamente, per esperienza professionale, il suo occasionale e modesto recensore – ne hanno radicata contezza. Ricordo un proverbio persiano che ben si attaglia alla metafora usata dall’autore per intitolare il suo libro: “se posi storta una pianta nel terreno essa crescerà storta fino al cielo”. L’elogio della lentezza, il valore del silenzio e della riflessione non sono disgiunti dal moto di ribellione verso vite inconsapevoli o storie già scritte, verso quella sorta di violenza simbolica che tutto appiattisce, che spegne ogni speranza, che rende eterodiretta la vita e le sue scelte, per dirla in due parole che diventa “anestesia dell’anima”. “Mordere il cielo” è una metafora che satura il bisogno di recuperare l’empatia come fonte di conoscenza degli altri e come ispirazione che muove verso la promozione delle relazioni umane. Troppo spesso oggi alla fatica di vivere si unisce la paura di amare: è un’amara riflessione che chi scrive questa modesta riflessione matura da tempo. Se la vita viene deprivata dai sentimenti e depotenziata nell’uso del pensiero critico ci attende un futuro denso di incognite di cui già oggi cogliamo i segni. Atarassia come “monumento dell’immobilismo emotivo” e “anestesia delle emozioni” sono derive prodromiche ad un declino cognitivo e all’impoverimento dei sentimenti. Paradossalmente incontriamo persone più soddisfatte della sofferenza altrui che del proprio personale benessere. Per questo Crepet spinge ad un moto di ribellione contro l’appiattimento nell’indifferenza, contro la rinuncia a cercare la bellezza anche dentro le alterne vicende esistenziali, perché la vita non sia solo mera sopravvivenza. Una insofferenza avvertita dall’autore e trasmessa ai lettori. Parafrasando l’esempio delle costruzioni di Renzo Piano, Crepet ci stimola a edificare un personale cantiere per la vita. E non è vero che si tratti di un cantiere progettato solo con e sulle parole. Per vincere il cinismo e l’insensibilità che- mi piace ricordarlo- da anni lo stesso CENSIS riscontra nelle macro derive del corpaccione sociale, occorre dare il via ad una radicale inversione di tendenza: “mordere il cielo”, vuol dire guardare in alto e lontano, vivificare la nostra umanità, riappropriarci di quell’alfabeto dei sentimenti che da tempo stiamo abbandonando per far posto agli interessi personali, agli egoismi, alle vuote nicchie di sopravvivenza, alle abitudini, al copia e incolla degli affabulatori e degli influencer. Perché anche le parole che accompagnano la narrazione della vita valgono e spiegano se hanno un senso e ci orientano alla ricerca della verità e del bene.