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Lo scetticismo dei paesi verso il partner economico cinese
Il mondo guarda alle mosse del partner economico cinese con diffidenza. Un umore che non ha nulla a che fare con le difficoltà dovute al corona virus ma che i modi opachi con cui il paese ha mosso i primi passi alla lotta contro l’infezione ha però giustificato. Già prima dell’esplosione del virus, gli Stati Uniti avevano avviato una guerra commerciale con Pechino. Limitandosi al nostro continente, la Germania aveva iniziato a elevare i livelli di controllo del commercio estero con l’Impero di mezzo. Con la durezza dei nuovi approcci normativi, Berlino vuole allontanare dal paese centro-europeo gli investitori asiatici meno desiderati. Ma è soprattutto nell’Europa orientale che il calo di prestigio del colosso asiatico è impressionante. Anche qui i finanzieri del lontano oriente, spesso caratterizzati per la loro vicinanza allo Stato, sono sempre meno graditi. L’acquisto di immobili e fabbriche, la costruzione di ponti e centrali energetiche, in una parola la componente economica del progetto Nuova via della seta, nei partner/sudditi est-europei risveglia l’impressione di un piano dalle venature egemoniche e imperiali. Tra questi paesi il primo ad appiccare il fuoco alle polveri dei dissidi con Pechino è stata la repubblica Ceca. Ossia lo Stato che finora sembrava quello meglio disposto a leggi tutto
Deutsche Bank chiama collaborazione europea: se non ora quando?
La voragine nei conti 2019 della prima banca tedesca è di 5265 milioni di euro di perdite (nel 2018 c’è un profitto di 341 milioni) su ricavi netti pari a 23165 milioni (in calo da 25316 del 2018). Circa 2.8 miliardi di rosso sono dovuti a svalutazione di attività finanziarie in pancia alla banca. Nel quarto trimestre 2019 Deutsche Bank (DB) perde quasi mezzo miliardo (437 milioni) nella parte nobile (core business) dell’attività cioè credito a famiglie (283 milioni) e imprese (107) a testimonianza che il rallentamento dell’attività economica e delle esportazioni stanno infliggendo colpi severi al sistema bancario tedesco. Ma non è solo il rallentamento di oggi a fare traballare la DB. I bilanci recenti sono scioccanti: nel 2015 perde 6.8 miliardi, 1.4 nel 2016, 500 milioni nel 2017. Le falle si aprono nel dicembre 2013 a seguito di una multa da quasi due miliardi delle autorità federali Usa (Housing Finance Agency). I conti 2013 e 2014 restano a galla ma si aggravano nell’ultimo trimestre del 2014. I numeri dimostrano che la lunga crisi della DB non nasce a seguito delle politiche di espansione monetaria di Super Mario presidente della BCE fino a qualche mese fa. Il QE di Draghi inizia più tardi in avanzata primavera 2015. Ma la cronica crisi DB dice anche dell’altro. La fissazione teutonica per conti pubblici specchiati con addirittura leggi tutto
Gennaio Secco. No all'alcol per un mese: tra salute pubblica ed economia
Proposto nel 2013 e attivato nel 2014, in Gran Bretagna è ormai ben noto il Dry January (Gennaio Secco), iniziativa che consiste nella sospensione del consumo di alcol per un mese. La scelta del mese di gennaio si spiega facilmente con l’invito a rifiatare dopo gli eccessi vacanzieri. In questi sei anni la campagna lanciata da Alcohol Change UK si è diffusa fuori dai confini del Regno Unito, anche se non ha avuto grande eco in Italia. Fatta eccezione per un articolo pubblicato lo scorso 16 gennaio su cucina.corriere.it, dedicato però più al costume e alle alternative al consumo alcolico che non all’informazione sul Dry January, è infatti piuttosto raro trovarne traccia sui media del nostro Paese.
Di tutt’altra portata e la risonanza avuta dalla proposta sulla stampa francese, dove Le Figaro e Le Monde in primis hanno dedicato pagine molto approfondite alla questione. Una controversia è sorta dopo l’annuncio che Janvier Sec (sappiamo bene che oltralpe si tende a tradurre sempre) si sta promuovendo senza l’appoggio, fino a novembre dato per scontato, dell’Agenzia per la Sanità Pubblica. Su pressione delle lobby legate all’industria vitivinicola, leggi tutto
Gran Bretagna: un exit tira l’altro
E’ possibile che in futuro gli storici che si occuperanno delle vicende del Regno Unito chiameranno questo secondo decennio del XXI secolo “the age of Exit”. Come è noto, infatti, è imminente la complicata e molto divisiva fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, avviatasi con il referendum del 2016, a cui si potrebbe aggiungere una possibile defezione del sistema universitario britannico dal progetto dello “scambio Erasmus”, vale a dire dal programma di mobilità studentesca tra Atenei, varato dall’Unione Europea nel 1987. Non è finita: come in una sorta di gigantesca matrioska, l’exit britannica potrebbe nasconderne un’altra, quella della Scozia, sempre più attratta dall’idea di approfittare dell’uscita di Londra dall’Europa per imporre quella di Edimburgo dal Regno Unito. Dentro questa sorta di carosello centrifugo sono recentemente saliti persino due pezzi da novanta della Famiglia Reale, il principe Henry, secondogenito dell’erede al trono Carlo, e sua moglie Meghan. La coppia ha infatti strappato alla regina Elisabetta il consenso alla decisione di voler diventare “finanziariamente indipendente dalla Royal Family”, chiedendo di fatto di “licenziarsi” da quella grande “azienda” che è la famiglia reale, per avviare una propria autonoma attività economica che significherebbe la conclusione, nel bene e nel male, di ogni obbligo di rappresentanza dei Windsor nel mondo, leggi tutto
Il partito domato. I quarant'anni dei Grünen
Il 2020 è anno di ricorrenze doppie per gli ecologisti tedeschi. Quarant’anni fa, il 13 gennaio 1980, a Karlsruhe, dalla nebulosa politica Altra Associazione partiva il percorso verso i Grünen, il primo partito ecologista della Germania divisa. Dieci anni dopo nella RDT gruppi e movimenti civili di opposizione davano vita a Bündnis 90/Die Grünen. Due momenti cruciali nella travagliata storia del movimento ambientalista che fino al 1995 non avrà dimensioni proprie e definitive. Scismi, disaccordi, fratture saranno, per almeno un quarto di secolo, il marchio distintivo del nuovo movimento. Un susseguirsi di svolte indispensabili a trasformare il “mucchio selvaggio” degli anni ’70 e ’80, nel partito pienamente integrato dell’attuale Germania. Come sottolineato nei primi giorni del 2010 da Frank-Walter Steinmeier, il cammino dei Grünen è “esemplare del modo in cui forze completamente diverse e spesso contrapposte possano riuscire a darsi un’identità condivisa”. Un itinerario fatto di rotture radicali, dolorose separazioni, rabbiosi distacchi ideologi e drammi esistenziali impossibili da valutare freddamente. Che i verdi rappresentino, ancora secondo le parole del capo dello Stato tedesco, un partito “diventato maggiorenne negli anni” è però indubbio.
Violenza come forma di lotta leggi tutto
La piccola Italia nella tempesta mediorientale
L’Europa non sta facendo una gran figura nella crisi mediorientale, acuitasi dopo la decisione di Erdogan di mandare truppe turche direttamente a sostegno di Tripoli e dopo quella di Trump di uccidere il generale dei pasdaran iraniani Qassem Soleimani. L’Italia però la sta facendo peggiore, non tanto per l’incapacità di avere un ruolo in questa complicatissima contingenza (inutile chiedere l’impossibile), ma per l’incapacità di capire che a fronte dell’evoluzione nel teatro mediorientale deve porsi con serietà il problema di rafforzare il prestigio del proprio sistema politico.
È una domanda da fare senz’altro alla coalizione che regge il Conte 2, ma dalla quale non può essere esentata l’opposizione, perché il “sistema” dovrebbe essere qualcosa che interessa tutti. Purtroppo il tema non viene minimamente affrontato. Non bastano certo le generiche prese di posizione del premier o quelle ancor più generiche del ministro degli esteri: sono frasi di vuoto buonismo che potrebbe esprimere chiunque. Quanto all’opposizione siamo poco distanti: al massimo c’è il solito Salvini che corre a schierarsi con Trump, tanto per fare un altro po’ di campagna elettorale.
La compagine governativa sembra concentrata soltanto sui suoi problemi interni, peraltro senza alcuna capacità di affrontarli seriamente. La faccenda della prescrizione naviga sempre nella nebbia.
FCA PSA tante ombre poche luci
La fusione tra PSA ed FCA mette insieme due realtà zoppicanti del settore auto con grosse difficoltà di mercato e in forte ritardo sotto il profilo tecnologico. PSA e FCA sono i produttori che per ultimi hanno sollevato il piede dalla trazione a gasolio e sono in ritardo rispetto a quasi tutti i concorrenti nell’ibrido e nell’elettrico. Hanno gamme di modelli in larga parte obsoleti e pochi progetti per il futuro prossimo. Nessuna delle due case ha una sufficiente presenza sui mercati a più forte crescita dell’Asia nonostante Psa sia partecipata da un produttore cinese. La prova di tutto questo viene dalle cifre della capitalizzazione delle due società complessivamente inferiori a quelle ad esempio di BMW che vende circa un terzo di auto di FCA-PSA. Psa viene dalla recente acquisizione di Opel che l’americana General Motors ha abbandonato dopo anni di perdite insanabili e investimenti al lumicino. FCA viene da anni di grande attivismo finanziario con i quali la proprietà ha progressivamente spezzettato una grande conglomerata simile ai grandi colossi coreani (Hyundai) e giapponesi (Mitsubishi, Honda) ottenendo tante piccole realtà industriali alcune delle quali vendute interamente a concorrenti, come Marelli. I risultati di queste incessanti manovre finanziarie sono stati deludenti leggi tutto
La lezione inglese
Ci si interroga sul significato più generale che possiamo dare a quanto si è verificato nella tornata elettorale in Gran Bretagna. Iniziamo col dire che, complice il fatto che di problemi a casa nostra ne abbiamo in dose sufficiente, questa volta di interpretazioni degli eventi britannici che miravano a dare spiegazioni in sintonia con i desiderata italiani ce ne sono state poche. La nostra destra fa fatica ad assimilarsi al pur scoppiettante Boris Johnson. Va tenuto presente che appiattirsi su di lui avrebbe significato esprimersi in senso anti europeista, cosa che, almeno formalmente, nessuna delle tre forze politiche che la compongono vuole fare (la tesi ufficiale non è per l’uscita dalla UE, ma per la sua “radicale riforma”). Così non si è di fatto andati oltre un generico apprezzamento per il prevalere di un vento di destra.
L’incerto e confuso centro nostrano non aveva modo di trarre fasti auspici: i liberali britannici, che si poteva presumere avrebbero profittato della svolta a sinistra del Labour non hanno ottenuto da essa la spinta per un significativo salto di posizione.
La sinistra che aveva promosso Jeremy Corbyn ad idolo dei nuovi fasti del para-marxismo del XXI secolo ha dovuto registrare che aveva scambiato i suoi sogni leggi tutto
Capire il sistema elettorale britannico
Le recenti elezioni in Gran Bretagna sono state l’occasione per una riflessione anche sui sistemi elettorali e sulle loro conseguenze. L’uninominale britannico ha da sempre un forte fascino per tutti coloro che pensano in termini di “governabilità” perché, unitamente al tendenziale bipartitismo della tradizione anglosassone, favorisce l’immediata individuazione del premier e dell’esecutivo. Le elezioni del 12 dicembre 2019 però saranno anche ricordate come una versione di quella referendal theory enunciata alla fine dell’800 da Lord Salisbury. Nella sostanza il leader conservatore rinviava agli elettori la soluzione di conflitti istituzionali inestricabili, come quelli ad esempio che potevano scoppiare tra Camera dei Comuni e Camera dei Lord. Sarebbero state le urne, in modo improprio, a dipanare la matassa: a seconda di quale maggioranza veniva inviata alla Camera dei Comuni si sarebbe stabilito chi tra i litiganti avesse ragione o torto. È quello che è successo in queste settimane: di fronte all’irrisolvibile rebus della Brexit, con il conflitto tra Parlamento e Premier, c’è stato il ricorso “referendario” alle urne. E il verdetto elettorale è stato chiaro e forte: i risultati, rinviando alla House of Commons una solidissima maggioranza tory, hanno dato ragione al Primo ministro e torto al Parlamento. Per questo il nodo è stato sciolto: leggi tutto
Una nuova firma sulle banconote
Dopo un presidente olandese, Duisenberg, uno francese, Trichet e l’italiano Draghi, è la francese Lagarde ad insediarsi alla testa della BCE e a porre la sua firma sulle banconote che ci troveremo tra le mani dal prossimo anno. La provenienza transalpina della Lagarde evita una moneta europea troppo made in Germany, ma rivela un peso eccessivo della Francia nel governo dell’Europa. In più il francese Trichet non diede buona prova di sé. Commise errori di politica monetaria che in buona parte causarono la crisi dei debiti sovrani in Europa nel 2010 e nel 2011 della quale stiamo ancora pagando le conseguenze. La BCE sottovalutò l’onda lunga della crisi finanziaria americana e adottò misure restrittive quando se ne richiedevano di espansive. Il risultato furono alti tassi d’interesse e un cambio insostenibile che toccò 1.6 dollari per euro facendo saltare come birilli in serie Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda. Dobbiamo però vedere il lato positivo della nuova presidenza francese perché sembra preannunciarsi in continuità con quella di Mario Draghi che ha cambiato radicalmente ruolo e peso della nostra banca centrale. Che nessuno si azzarda a definire federale ma che in effetti lo è essendosi ritagliata sin dall’inizio una fetta di sovranità che i paesi aderenti all’euro hanno leggi tutto