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Quella in corso per il voto presidenziale previsto il 10 e 24 aprile è un’anomala campagna elettorale

Michele Marchi - 30.03.2022
Macron

Prima dell’invasione russa dell’Ucraina pur non mancando alcune incognite e zone d’ombra, la rielezione di Macron era data per probabile e questo anche a causa di una serie di competitors difficilmente ascrivibili al novero dei “presidenziabili”. Dopo il 24 febbraio tutti i sondaggi hanno registrato un’importante crescita di intenzioni di voto nei confronti del presidente uscente. Ad oggi pensare ad una non rielezione di Macron il 24 aprile significa muoversi sul terreno della fantapolitica, piuttosto che su quello dell’analisi razionale. Dunque il primo elemento di anomalia è senza dubbio la convinzione diffusa tra i sostenitori di Macron ma in larga parte anche presso chi vi si oppone, che per vedere una competizione presidenziale aperta ed incerta occorrerà attendere il 2027.

In realtà anche prima dell’accelerazione drammatica in Ucraina, la campagna elettorale transalpina stentava a decollare. Da un lato Macron ha fatto di tutto per ritardare la sua ricandidatura in parte sfruttando l’emergenza pandemica, in parte riproponendo un approccio di Charles de Gaulle nel 1965 (all’epoca con risultati non memorabili). Dall’altro lato per ragioni oggettive, è complicato fare bilanci sui cinque anni di guida del Paese. Se si esclude sostanzialmente il primo anno, il quinquennato macroniano è stato dominato da tre clamorose emergenze. La prima tutta interna al contesto francese, apertasi nel novembre 2018 e per molti aspetti oggi solo in pausa, quella dei cosiddetti gilets jaunes. Nel momento in cui si sono placate manifestazioni di piazza e gli scontri ha fatto irruzione la crisi pandemica globale, con le sue successive ondate. E infine, con un’Europa che pareva uscire dall’emergenza sfruttando i primi finanziamenti del recovery fund (probabilmente il momento più alto dell’operato di Macron nell’alveo dell’asse franco-tedesco), ecco piombare la crisi russo-ucraina. Al presidente riformatore, eletto nel 2017 per andare oltre la destra e la sinistra, con l’obiettivo di intervenire in profondità nelle inefficienze di un sistema Paese che ha perso il controllo dell’evoluzione continentale a scapito della Germania, si è ben presto sostituito il presidente del tempo di crisi. Tutto ciò ha senza dubbio favorito un esercizio più accentrato o come si è spesso detto più “verticale” del potere, sfruttando a pieno tutte le potenzialità del sistema della V Repubblica. Ma ha allo stesso modo limitato l’operato dell’Eliseo alla gestione dell’ordinario, spesso in condizioni “straordinarie”, vuoi si trattasse dell’ordine pubblico o del tentativo di disinnescare la “bomba” gilets jaunes con il grand débat national, vuoi fosse la gestione sanitaria e socio-economica degli effetti della pandemia.

Un terzo elemento che contribuisce a caratterizzare questa anomala campagna elettorale è poi il programma presentato ad inizio marzo dal presidente uscente. Anche in questo caso riproponendo una modalità utilizzata da François Mitterrand nel 1988 (con minor successo da Sarkozy nel 2012), la lettera diretta a tutti i cittadini francesi, Macron in realtà ha presentato una sorta di “non programma”, che ha finito per deludere lo stesso fronte macronista. La “lettera”, anche per stile piuttosto piatta e anonima, ha solo due elementi di interesse. Da un lato il presidente-candidato sembra ribadire una convinzione già espressa nel febbraio 2017 e cioè quanto sia “errato pensare che il programma sia il cuore di una campagna elettorale. La politica è mistica!”. Piuttosto che cercare il presidente riformatore, l’elettorato del 2022 debba incontrare il presidente “protettore”, che nelle successive crisi ha abbondantemente mostrato le sue capacità. Dall’altro lato laddove Macron dettaglia alcuni provvedimenti è impossibile non vedere l’occhio di riguardo per l’elettorato di centro-destra, basti pensare alla proposta di innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile, all’insistenza sull’energia nucleare e all’inasprimento sulle condizioni per ottenere il diritto d’asilo. A tali riferimenti si deve poi aggiungere l’esplicito richiamo alla volontà di allargare ulteriormente l’area di governo, sino alla provocazione di non escludere una proposta di incarico di governo all’attuale leader del partito post-gollista Les Républicains e candidata all’Eliseo, Valérie Pécresse.

Tale richiamo alla presidente dell’Ile-de-France, una delle poche novità della competizione elettorale, permette di soffermarsi su un’altra anomalia e ambiguità della campagna presidenziale e cioè l’offerta politica rappresentata dagli undici candidati che si contrappongono ad un presidente uscente che viaggia oramai stabilmente tra il 29 e il 30% delle intenzioni di voto al primo turno ed è dato largamente vincitore contro qualsiasi candidato al ballottaggio.

Nelle analisi successive al voto del 2017 si era fissata l’attenzione sulla cosiddetta “decomposizione” delle tradizionali forze politiche del bipolarismo quinto repubblicano, la sinistra socialista e la destra neo o post-gollista. Il ballottaggio 2017 tra i due “outsiders” Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, rispettivamente candidati dell’anti-Europea e dell’europeismo, ben si applicava a questa interpretazione. A due settimane dal voto del 10 aprile, i sondaggi accreditano una ripetizione di questo ballottaggio, con ancora minori possibilità di vittoria per Marine Le Pen, ma in un contesto in parte mutato.

A sinistra permane il campo di macerie, se possibile aggravatosi sul versante socialista, con la candidatura del sindaco di Parigi Anne Hidalgo che oscilla tra l’1,5 e il 3%, con il candidato verde Jadot attorno al 5% ma soprattutto con una frammentazione simile a quella della sciagurata elezione del 2002, dominata dal sempreverde sovranista di sinistra Mélenchon in risalita attorno al 15% e completato da tre candidati tra PCF, trotzkisti e anticapitalisti, che sommati difficilmente dovrebbero passare il 5%. Le vere novità sono ascrivibili al campo della destra. Qui da segnalare sono due importanti passaggi. Da una parte la candidatura di Valerie Pécresse, uscita da una primaria che aveva fatto gridare alla riscossa il fronte post-gollista, in realtà ha finito per sgonfiarsi e questo non solo per lo scarso profilo “presidenziabile” della candidata stessa, ma in larga parte per il tarlo ideologico che perlomeno dall’elezione di Sarkozy nel 2007 erode dall’interno il potenziale elettorato di centro-destra. Il lavoro di cosiddetta dédiabolisation operato da Marine Le Pen, al quale in questa campagna elettorale si è aggiunta la proposta liberal-conservatrice (a venature fortemente identitarie) del polemista xenofobo Eric Zemmour, più il posizionamento “centrista” di Macron, hanno finito per gettare nel caos programmatico e di proposta politica lo spazio del gollismo transalpino. Al momento i sondaggi certificano una importante risalita di Marine Le Pen, che con il 17% si garantirebbe il ballottaggio e un arretramento prevedibile di Zemmour (dato attorno al 10%), ma soprattutto un crollo di Pécresse (anche lei attorno al 10%). Il piazzamento dei tre candidati della destra la sera del 10 aprile potrà influire non poco sulla ricomposizione di questo campo politico in vista del 2027.

Al netto di queste speculazioni, la volatilità e la tensione legate alla guerra e alle dinamiche sanitarie ed economiche per nulla risolte potrebbero spingere verso un’astensione massiccia (probabile) o addirittura verso una mobilitazione dell’ultima ora, poco controllabile e prevedibile nei sondaggi di opinione. Il presidente uscente sembra consapevole di tali rischi e non a caso ha di recente lanciato una serie di appelli alla mobilitazione e al contrasto di un rilassamento in base al quale l’esito del 24 aprile sarebbe già scritto. Detto ciò, il rischio di avere ancora una volta dopo il 2017 un presidente scarsamente rappresentativo, perché eletto con un forte astensionismo, dovrebbe portare lo stesso Macron ad una riflessione che vada al di là delle crisi contingenti. In cinque anni Macron, seppur con alcune giustificazioni, non è riuscito a fornire risposte ai segnali inequivocabili di sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni rappresentative. Cinque ulteriori anni in questa direzione potrebbero fare non solo del paesaggio politico ma anche di quello istituzionale un campo di macerie. In una famosa intervista di inizio mandato Macron parlava dell’importanza per la vecchia Europa di tornare a fare i conti con il “tragico” insito nella storia dell’umanità. I drammatici fatti sul fronte orientale hanno strappato il velo su molte ipocrisie. Se dal 24 aprile continuerà la sua avventura all’Eliseo, lo stesso Macron dovrà mostrarsi in grado non solo di aver talento come narratore, ma anche come interprete, di questa storia drammaticamente di ritorno.