L'ordine liberale è evoluzione
Dovevamo proprio farci sbattere in faccia da Putin al Forum economico di San Pietroburgo che è finito l'ordine liberale mondiale dominato dagli Stati Uniti con l'alleata l'Europa compartecipi di una storia spesso tragica, ma comune? Dovevamo lasciare che fosse Putin a far uscire dai circoli degli esperti e a sbattere in prima pagina questa ovvietà? È successo perché è una ovvietà che fa male e che costringe ad abbassare la cresta a noi opinione pubblica, opinione politica, galletti indomiti perché ciechi. Facciamo un esempio illustre che risale ai tempi aurei della conquista europea del mondo e della costruzione dell'universo politico moderno, l'esempio di Alexis de Tocqueville, uno dei grandi padri del liberalismo. Nella prima metà dell'Ottocento Tocqueville scoprì in America la democrazia trionfante, ne preconizzò con timore l'allargarsi in Europa e teorizzò che negli Stati Uniti la democrazia poteva sussistere perché era una democrazia costituzionale e liberale che divideva il potere fra molti centri istituzionali in modo che nessuno potesse prevaricare e al tempo stesso costituzionalizzava i diritti individuali. Un grande; ma un grande che negli anni Quaranta approvò la guerra devastante della Francia in Algeria, i continui massacri che l'Armée commetteva per assoggettare gli arabi e giudicò necessaria la colonizzazione francese. E allora? Con fatti come questo, oltre che sulla costruzione di una modernità aspramente conflittuale, però rivoluzionaria e vieppiù aperta, il mondo euroamericano ha segnato la storia di buona parte del mondo. È un'eredità pesante che ha fatto dell'Occidente un Macbeth certo del suo diritto di dominare e gli ha impedito di vedere che il suo stesso capitalismo dava un potere crescente a popoli che della storia occidentale non condividevano quasi niente, che avevano cultura e civiltà proprie e potevano servirsi della scienza e dell'economia occidentali per presentarsi col proprio volto come un'alternativa all'autocelebrazione occidentale. La foresta cammina, e cammina, come ci dice Shakespeare, contro Macbeth. E adesso la Russia, frustrata nelle sue ambizioni di grande potenza e incapace di dotarsi degli strumenti economici e culturali per primeggiare, cerca di rovesciare il tavolo anche a costo di dare alla Cina la palma del primato.
C'è tanto da fare, non per riconquistare un'egemonia perduta; ma per rendere di nuovo usabile un accumulo di pensiero e di storia del quale potremmo fare a meno solo se intendessimo baciare la pantofola al Patriarca di Mosca Kyrill. E allora abbassiamo la cresta, che non significa cedere alla storia e alla cultura russa, cinese o araba. La competizione con quelle culture c'è; ma si cominci a considerarla qualcosa non di micidiale. Lo scontro con i paesi che le rappresentano è una realtà; ma vediamo di renderlo utile alla costruzione di un ordine mondiale plurale. Plurale, non pluralista, e quindi pericoloso, però con un equilibrio possibile. Qualcosa di simile ai Trattati di Vestfalia che a metà Seicento posero fine alle guerre di religione e crearono un – instabile, ma non distruttivo – equilibrio fra gli stati europei. Questo, però, non è il mio campo e non vado oltre un accenno. Uno sguardo ai “nostri” valori allora. Sono valori ardui da definire perché le società occidentali sono entrate in un processo di mutamento culturale rapidissimo, nemico di ogni definizione precisa e amico dei processi in veloce evoluzione difficili da commentare e da gestire, aspramente conflittuali, ma di una conflittualità frammentata che all'improvviso dà vita a masse ribollenti. Tutto gira attorno alla più aspra, alla più feroce delle parole, libertà, che è la parola che più di ogni altra rappresenta da sempre la storia dell'Europa, delle Americhe, dell'Occidente, dalla libertà grecoromana a quella cristiana a quella illuminista che è la madre della modernità fino alla scoperta del desiderio e della libertà di desiderare e di essere ciò che il desiderio ti invita a raggiungere. Ralph Waldo Emerson, uno dei più grandi moralisti di sempre, dice che la democrazia esiste perché gli esseri umani hanno tutti la stessa capacità di esplorare il vero nelle sue innumerevoli e contraddittorie (sic!) espressioni e di trovarsi così uguali e uniti nell'oversoul, la superanima universale in cui consiste il divino. Ecco, la verità ha innumerevoli facce, qualcosa che nell'Ottocento poteva essere capito solo in una società mobile come quella statunitense e che oggi nel nostro presente ci appartiene.
La cultura occidentale non è un insieme statico di verità, non definisce e difende l'individuo libero come fosse un moai di pietra dell'isola di Pasqua. Siamo un network, un rizoma in continua espansione, non abbiamo e non possiamo avere una singola, culturalmente fissa struttura, una cosiddetta identità. E nella pratica non la cerchiamo; ma se ci arrendiamo al sempre più veloce espandersi del rizoma, se consideriamo quella fluidità una regola – una regola inamovibile da difendere a ogni costo – ci perderemo e perderemo il confronto con culture diverse. Ci serve una cultura che riconosca i tempi e nel nostro tempo cerchi continui, instabili, ma necessari equilibri che diano una pausa, sempre breve, al flusso indiscriminato dei desideri in cui ognuno e ogni gruppo si riconosce e si muove. È come nei rodei in cui si cavalca un toro e si resta in sella per cinque, dieci, venti secondi prima di essere sbalzati via per poi tentare ancora e ancora e se uno non ce la fa più c'è qualcun altro che prende il suo posto.
* Professore emerito di Storia americana – Università di Bologna
di Paolo Pombeni
di Tiziano Bonazzi *