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Le elezioni primarie

Luca Tentoni - 12.03.2016
Rivista Il Mulino 1/16

È tempo di primarie. Negli USA, repubblicani e democratici stanno scegliendo i loro candidati alla Casa Bianca. In Italia, più modestamente, sono stati recentemente selezionati - in un modo tecnicamente diverso – coloro i quali rappresenteranno il centrosinistra alle “comunali” nelle maggiori città italiane. A Milano, Roma e Napoli l'ultima parola sugli aspiranti sindaci è stata detta dai partecipanti a consultazioni popolari aperte, cioè non riservate ai soli iscritti ai partiti della coalizione ma allargate alla platea dei simpatizzanti. Come sempre, torna il dibattito sull'utilità delle "primarie", sulla maggiore o minore affluenza, sulla qualità delle candidature, persino sull'opportunità politica di svolgerle (si veda il caso delle "regionali" in Liguria nel 2015). Uno degli ostacoli - a nostro avviso - nell'analisi di questa modalità di scelta delle candidature a cariche pubbliche elettive sta nell'attribuire allo strumento una connotazione positiva o negativa. Ci sono, certo, meccanismi che vanno messi a punto a seconda dei tipi di elezione ai quali si riferiscono. Anche il contesto politico-sociale è importante. Inoltre, quando c'è un eletto uscente che si ricandida, si può e forse si deve evitare (com'è successo a Torino per Fassino) di attivare il meccanismo delle "primarie". In sintesi, le primarie sono come i sistemi elettorali: uno strumento, non un fine. Non risolvono problemi se il contesto è difficile. Come scrive molto bene Luciano Fasano sull'ultimo numero del "Mulino" (1/2016) "le primarie funzionano secondo una logica garbage in/garbage out: se entra spazzatura non può che uscirne nuovamente quella". Sarebbe opportuno, quindi, concentrare l'analisi su questo fenomeno adottando un approccio più "laico", soffermandosi sugli effetti sistemici. Un giudizio sull'efficacia delle "primarie" non può che tenere conto, dunque, dello scopo che di volta in volta si vuole raggiungere. Come dicevamo, non è diverso il discorso per i sistemi elettorali: ad esempio, se si vuole assicurare la maggioranza dei seggi ad un partito, difficilmente si sceglie un meccanismo puramente proporzionale, ma si preferiscono quelli che attribuiscono premi impliciti o espliciti, sovrarappresentando soggetti politici a scapito di altri. Nel caso italiano, abbiamo avuto diverse finalità - talvolta concorrenti - delle "primarie": di selezione del candidato (evitando, così, scelte che il vertice del partito o della coalizione non intendeva compiere o che voleva rimettere all'orientamento della "base"), di mobilitazione dell'elettorato potenziale (aprendo la partecipazione ben oltre il recinto degli iscritti e sfruttando l'effetto mediatico che una competizione del genere assicura di solito), di "compensazione" fra una politica sempre più fatta di leader e la facoltà per il popolo di sceglierli. Se ne potrebbero citare altre, ma limitiamoci a queste. Nel 2005, quando milioni di persone andarono a votare per le primarie dell'Unione, il vincitore atteso (e plebiscitato) era Romano Prodi. In quel caso, lo scopo non era di fare una scelta, ma di rafforzare col voto popolare una leadership che aveva bisogno di dimostrarsi quasi più forte dei singoli partiti e di trainarli verso il successo alle seguenti elezioni politiche. Quel momento di grande partecipazione è stato sicuramente un fattore decisivo - per l'impatto mediatico e i risvolti politici che ha comportato a breve termine – nella vittoria del centrosinistra alle "politiche" del 2006 (nonostante il "sabotaggio" senatoriale attuato con scientifica precisione dal "Porcellum"). In quel voto c'è stata una forte componente comunitaria e identitaria, una sorta di uscita allo scoperto di un "popolo" che aveva subìto negli anni precedenti una lunga traversata nel "deserto" dell'era berlusconiana. Ma c'era anche, simbolicamente, il risarcimento all'uomo (Prodi, appunto) inopinatamente estromesso da Palazzo Chigi nel 1998 proprio ad opera di una parte (più o meno trasversale, dopo Gargonza, anche se a compiere lo strappo decisivo era stata Rifondazione comunista) dell'apparato di vertice della sua coalizione. Quelle del 2005 (il discorso vale anche per quelle del 2007 che hanno “incoronato” Veltroni leader del Pd) dunque, non sono state primarie selettive, mentre altre – come nel 2009 fra Franceschini e Bersani, nel 2012 fra Bersani e Renzi e nel 2013 fra Renzi, Cuperlo e Civati - hanno avuto un compito per così dire "intermedio": in tutti i casi c'era un favorito dai pronostici ma la gara è stata autentica e combattuta. Ancora diverso, inoltre, il discorso relativo ad altre primarie, dove il risultato non era scontato, ma soprattutto nelle quali i promotori non avevano alcuna intenzione di compiere una scelta delicata e forse rischiosa che preferivano far passare per le mani del "popolo di centrosinistra". In queste circostanze, le primarie hanno assolto al loro compito: quello di fornire un nome. Il fatto che talvolta siano state annullate perché qualcosa di poco chiaro era accaduto non deve meravigliare (e non è colpa del metodo elettivo) se si torna al principio semplice enunciato da Fasano: quel che entra, esce. Nel dibattito sulle "primarie", perciò, dovremmo preliminarmente discutere non tanto circa la "confezione" (gli aspetti tecnici, pur importanti) ma sul contenuto (gli scopi politici, i candidati, la volontà dei vertici di legittimare scelte già prese o di demandarle ai simpatizzanti, il contesto generale). Se osserviamo le recenti competizioni a Milano, Roma e Napoli, troviamo diversità di contesto (una città dove il centrosinistra governa; una dove governava prima del commissariamento; una, infine, nella quale alle scorse comunali il Pd non è neanche arrivato al ballottaggio e dove le precedenti primarie per le comunali sono state annullate per irregolarità) e di candidature (competitive, s'intende: di partiti diversi a Milano, dello stesso partito; maggioranza contro minoranza, semplificando, a Roma; dello stesso partito ma in una contrapposizione fra un politico di lungo corso presentatosi quasi "contro" il Pd e una candidata più giovane dello stesso partito, a Napoli). In queste consultazioni, le primarie dovevano servire fra l'altro a: 1) scegliere il candidato; 2) attirare la maggiore attenzione mediatica possibile sulla competizione, nella speranza di "dare una spinta" al vincitore in una campagna elettorale comunale non facile (soprattutto a Roma e a Napoli) e neppure scontata; 3) spostare dal vertice del partito (a Milano: della coalizione) alla base l'onore e l'onere della candidatura da presentare. Che alcune siano state più combattute e competitive di altre (di più quelle di Napoli e Milano, meno quella di Roma) dipende da molti fattori non interenti al meccanismo di selezione. Ci sono cose, inoltre, che alle "primarie" non si possono chiedere: per esempio l'affluenza, che varia a seconda dell'interesse per la competizione, del clima socio-politico che si crea (compresi scandali o pregresse esperienze amministrative non soddisfacenti), del profilo dei candidati, del tipo di elezione che seguirà (nazionale, locale o di partito: un conto è scegliere il segretario del Pd, un altro conto il candidato sindaco e un altro ancora l'aspirante Premier). Le "primarie" per Prodi nel 2005 a Roma, ad esempio, hanno portato ai seggi molte più persone che per Giachetti nel 2016, ma si tratta di consultazioni differenti (e si potrebbe aggiungere: di momenti storici diversi, di partiti - Pd compreso - cambiati, eccetera). Quando parliamo di questo genere di consultazione popolare, dunque, e vogliamo dare giudizi di valore, dovremmo concentrarci sull'offerta politica e non sulla struttura della competizione, perché se è vero che i meccanismi tecnici e la platea degli aventi diritto possono cambiare qualcosa nel risultato, è però ancor più vero che sono sempre la politica e soprattutto la percezione (se non la convinzione) dell'opinione pubblica a fare la differenza e a decretare il successo, il conseguimento o meno dello scopo che ci si prefigge di raggiungere tramite il semplice strumento delle "primarie". La stessa possibilità di “inquinamento” della consultazione e del risultato dipende in grandissima parte dal contesto e ben poco dal meccanismo di voto: sono possibili brogli anche alle elezioni politiche e amministrative, ma non per questo si smette di andare alle urne per il rinnovo delle Camere o degli organismi rappresentativi locali. Una regolamentazione giuridica delle primarie comprendente sanzioni penali, semmai, potrebbe limitare episodi e “togliere qualche sovrastruttura” indesiderata a competizioni che si svolgono in climi particolari. In Italia, come scrive Fasano, “la natura di consultazioni aperte” delle primarie “ha contribuito ad accrescerne la partecipazione, favorendo la selezione di candidati rappresentativi di un mondo ben più ampio degli iscritti al Pd o ai partiti della coalizione di centrosinistra che se ne erano fatti promotori” anche se non sempre “ha scongiurato il rischio di scegliere candidati che alla prova dei fatti non fossero in grado di vincere”, ma “ha certamente impedito l’individuazione di candidati esclusivamente subordinati a logiche partitiche, il che non significa necessariamente riuscire ad escludere candidature poco attrattive (…)” nei confronti di alcuni settori dell’elettorato, anche se non è di questo di cui “possono farsi carico le primarie, riguardando l’orientamento politico di chi vota e non le caratteristiche del meccanismo adottato per la selezione delle candidature”. E’ corretto affermare, come fa Fasano, che si tende a sottovalutare “la valenza costitutiva che le primarie hanno assunto” per l’elettorato di centrosinistra, quale “elemento fondamentale per la vita democratica di partiti e coalizioni” e che il Pd “nasce come partito delle primarie”, considerate “elemento imprenscindibile della identificazione” degli elettori “e del proprio orientamento politico verso il partito e la coalizione”. Non è giusto sminuirne il ruolo di aggregazione e la funzione, che è quella di ovviare al calo della partecipazione politica “classica” (quella che passava per le sezioni e l’attivismo di milioni di persone) con strumenti nuovi, più aperti ai simpatizzanti e alla “società civile”, in un tempo nel quale i partiti sembrano avere vertici e leader forti ma basi fragili, sbriciolate. Tuttavia, ci sembra opportuno rimarcare, come sempre, che sono le persone - non i mezzi tecnici o le leggi - che fanno i partiti, le istituzioni e, in questo caso, i leader forti e i candidati migliori.