Ultimo Aggiornamento:
27 aprile 2024
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Referendum costituzionale, la partita è aperta

Luca Tentoni - 30.04.2016

Ogni sondaggio relativo al referendum costituzionale di ottobre è attualmente poco più d'un embrionale tentativo di "saggiare il terreno". Abbiamo ancora quasi sei mesi di campagna elettorale (compresa quella per le comunali, che si concluderà col voto del 5 e 19 giugno) quindi non stupisce che - su cento intervistati da Euromedia Research per “Ballarò” del 19 aprile scorso - ben 46 (il 45,9%, per l'esattezza) non sappiano se andranno a votare o, per ora, non siano intenzionati a farlo. Lo stesso risultato del sondaggio, relativamente alla preferenza di chi invece andrebbe ai seggi, è poco significativo: il 26% degli interpellati approverebbe la riforma, mentre il 28,1% la respingerebbe. Non è solo un dato rientrante nel margine d'errore statistico, ma è anche suscettibile di variazione nel corso dei mesi. Detto questo, però, il sondaggio della Ghisleri non è affatto inutile, perchè delinea alcune tendenze già molto chiare. Secondo la rilevazione, la consultazione sulla riforma costituzionale sembra già una sorta di referendum pro o contro Renzi: voterebbe “sì” il 69% degli elettori centristi di governo (Ncd-Udc) e il 65,2% di quelli del Pd (il “no” si fermerebbe rispettivamente al 6 e al 5%, con un tasso di indecisi o non votanti fra il 25 e il 30%). Solo gli elettori di Sel avrebbero una marginale propensione al "sì" maggiore rispetto a quella di altri partiti d'opposizione: 26,6% contro l'11% di FI e Lega, il 7% di FdI e l'8,5% del M5S. leggi tutto

Referendum, note a margine

Luca Tentoni - 23.04.2016

Il referendum del 17 aprile è giunto a 42 anni di distanza da quello sul divorzio (12-13 maggio 1974) e a 21 anni dall'ultima consultazione che superò comodamente il quorum (quella dell'11 giugno 1995). In questa storia in due atti dell'istituto referendario ci sono altrettante eccezioni che confermano la regola: il mancato quorum del 1990, il quorum scattato nel 2011. Per il resto, fra i primi e i secondi 21 anni di referendum c'è un abisso. Il primo è stato il periodo della battaglia sul merito e nelle urne; il secondo, quello dell'astensionismo di supporto al "no". Che la tendenza ad abrogare le leggi fosse ormai diffusa era già chiaro alla fine degli anni Ottanta. Nelle consultazioni del 1974 (divorzio), 1978 (finanziamento partiti, legge Reale), 1981 (aborto - 2 quesiti - abolizione dell'ergastolo, ordine pubblico, porto d'armi), 1985 (scala mobile) il "no" vinceva sempre e comunque, anche con scarti minimi come nell'ultimo referendum della serie, caratterizzato da una contrapposizione fra Craxi e Pci-Cgil che chiuse forse definitivamente le porte ad una possibile futura "alternativa di sinistra". Nel primo quarto di storia referendaria, dunque, prevalsero l'alta affluenza (sempre minore rispetto alle politiche, però) e la tendenza dell'elettorato a confermare le leggi dello Stato, anche le più sgradite (quella sul finanziamento ebbe il 43,6% di sì: un campanello d'allarme per la Prima Repubblica; del resto, in quel drammatico 1978 l'elettorato italiano non era ancora pronto, come sarebbe stato nel 1991-'93, per dare una "spallata" al sistema). leggi tutto

L'Italia dei "sette campanili"

Luca Tentoni - 09.04.2016

Fra due mesi, quando saranno aperte le urne delle elezioni comunali, i partiti non potranno fare a meno di dare ai responsi delle "amministrative" un valore politico. O, meglio, lo faranno soprattutto i vincitori. Ad ogni buon conto, se ci sarà un dibattito sui risvolti del voto sul quadro politico nazionale si terrà conto non delle centinaia di comuni che pure rappresentano una parte non trascurabile dell'elettorato, ma dei sette capoluoghi di regione dove avranno luogo le sfide principali, probabilmente le più incerte e appassionanti. Come nella storica trasmissione radiofonica "Tutto il calcio minuto per minuto", insomma, saranno le notizie provenienti dai "campi principali" ad occupare in modo pressochè totalizzante l'attenzione degli appassionati. Eppure quelle sette città, come del resto i ventuno capoluoghi di regione italiani (per il Trentino-Alto Adige si considerano Trento e Bolzano) hanno un comportamento elettorale molto diverso rispetto al resto del Paese. Per accorgersene, basta elaborare i dati relativi alle consultazioni dal 2006 in poi. In tutte le occasioni il centrosinistra avrebbe vinto le elezioni: non solo come Unione nel 2006 (51,9% contro il 41,6% nazionale) ma anche come "piccolo centrosinistra" nel 2008 (politiche: Pd e Idv avrebbero portato Veltroni a Palazzo Chigi col 43,6% dei voti contro il 37,6% nazionale; il centrodestra si sarebbe fermato al 41,7%, contro il 46,8% nazionale) e nel 2009 (europee).  leggi tutto

Partiti "del leader" ed elezioni locali

Luca Tentoni - 02.04.2016

In un'epoca nella quale i partiti tendono a perdere spazio e consenso mentre i leader divengono non solo centrali ma trainanti e decisivi per il risultato elettorale e per la stessa esistenza di molti soggetti politici, il voto per il rinnovo dei consigli comunali previsto per la fine della primavera rappresenta un banco di prova fondamentale. Poichè la politica è sempre più un fatto mediatico e personalizzato, i partiti e i movimenti hanno la necessità di agire su due fronti: da un lato, quello nazionale, dove la comunicazione non può che passare attraverso internet ma anche per i mezzi di comunicazione "tradizionali" (giornali, televisione); dall'altro, c'è la dimensione locale del rapporto "porta a porta" con gli elettori e con le loro esigenze quotidiane, variabili a seconda del tipo di comune e del contesto sociale ed economico. Nei soggetti politici di un tempo il livello nazionale e quello locale non erano poi così disgiunti, anche se potevano apparire distanti: l'organizzazione capillare tradizionale (la sezione aperta e funzionante anche nei comuni più piccoli) e alcuni fattori unificanti (l'ideologia, la prevalenza della classe dirigente sul leader, il peso nazionale dei notabili locali) facevano sentire la "presenza" del Partito anche in ambiti territoriali minori. leggi tutto

Il centrodestra "plurale"

Luca Tentoni - 26.03.2016

La moltiplicazione delle candidature di centrodestra e destra a Roma rappresenta efficacemente lo stato attuale di disgregazione di un "polo" (la ex Cdl) che ha governato il Paese per circa nove anni e che ha sempre avuto percentuali di voto nazionali complessivamente superiori al 40% dei suffragi (se non prossime al 50%) fino al "terremoto elettorale" del 2013, quando la coalizione di Berlusconi perse milioni di voti ma si fermò, col suo 29,2%, ad un passo dal 29,5% del centrosinistra di Bersani, fallendo così la conquista del premio di maggioranza alla Camera dei deputati. Per anni, sia pure in presenza di due leader promotori di istanze diverse fra loro come Fini e Bossi (e dei rispettivi partiti) il centrodestra è sempre stato tenuto insieme da Berlusconi. Il Cavaliere riuscì addirittura a costruire la sua prima coalizione vincente, nel 1994, alleandosi con il Carroccio al Nord e con An nel centrosud: allora il "senatur" non voleva prendere con Fini "neppure un caffè" (salvo, poi, allearsi dopo il voto per dar vita al primo governo Berlusconi, durato pochi mesi). Il centrodestra disegnato dal Cavaliere e capace di vincere tre elezioni politiche (1994, 2001, 2008) aveva un leader incontrastato, una pluralità di forze politiche (dai neodemocristiani di Casini ai postmissini di Fini, passando per i leghisti di Bossi) ma soprattutto era incentrato su un partito egemone, Forza Italia. Gli "azzurri" avevano ciò che i loro alleati non possedevano: leggi tutto

Le elezioni comunali e il “voto degli esclusi”

Luca Tentoni - 19.03.2016

Mentre i partiti definiscono, fra mille difficoltà, le candidature alle elezioni comunali, c'è già chi si prepara a dare al voto nei grandi centri urbani un valore politico nazionale. Ovviamente si tratta di comparazioni rischiose, fra consultazioni di diverso genere. In primo luogo, l'affluenza alle comunali è solitamente più bassa di circa il 15-20% rispetto a quella delle politiche. Se ci riferiamo ai soli dati aggregati relativi alle sette maggiori città dove si voterà fra un paio di mesi (Torino, Milano, Bologna, Trieste, Roma, Napoli, Cagliari) abbiamo un'affluenza oscillante fra il 54,1% delle europee e il 62% delle regionali (59,6% comunali) che sale però al 74,6% alle politiche (il periodo considerato va dal 2011 al 2015). La "platea" di riferimento, insomma, sarà stavolta meno ampia che nel 2013. Inoltre, ci sono appuntamenti nei quali i partiti e le coalizioni ottengono rendimenti diversi: più il voto è politico, ad esempio, più il M5S ha possibilità di conseguire una percentuale elevata. Non si spiegherebbe diversamente il 24,3% avuto alle politiche 2013 dai Cinquestelle contro il 21,7% delle europee e il 16,4% delle regionali 2013-2015. Senza contare, inoltre, che a Roma si votò lo stesso giorno, nel 2013, per comunali e politiche, con questi risultati: M5S 12,8% comunali, 27,3% politiche. In quella occasione il centrodestra ottenne invece il 31,7% per le amministrative ma solo il 23,7% per la Camera. leggi tutto

Le elezioni primarie

Luca Tentoni - 12.03.2016

È tempo di primarie. Negli USA, repubblicani e democratici stanno scegliendo i loro candidati alla Casa Bianca. In Italia, più modestamente, sono stati recentemente selezionati - in un modo tecnicamente diverso – coloro i quali rappresenteranno il centrosinistra alle “comunali” nelle maggiori città italiane. A Milano, Roma e Napoli l'ultima parola sugli aspiranti sindaci è stata detta dai partecipanti a consultazioni popolari aperte, cioè non riservate ai soli iscritti ai partiti della coalizione ma allargate alla platea dei simpatizzanti. Come sempre, torna il dibattito sull'utilità delle "primarie", sulla maggiore o minore affluenza, sulla qualità delle candidature, persino sull'opportunità politica di svolgerle (si veda il caso delle "regionali" in Liguria nel 2015). Uno degli ostacoli - a nostro avviso - nell'analisi di questa modalità di scelta delle candidature a cariche pubbliche elettive sta nell'attribuire allo strumento una connotazione positiva o negativa. Ci sono, certo, meccanismi che vanno messi a punto a seconda dei tipi di elezione ai quali si riferiscono. Anche il contesto politico-sociale è importante. Inoltre, quando c'è un eletto uscente che si ricandida, si può e forse si deve evitare (com'è successo a Torino per Fassino) di attivare il meccanismo delle "primarie". In sintesi, le primarie sono come i sistemi elettorali: uno strumento, non un fine. Non risolvono problemi se il contesto è difficile. Come scrive molto bene Luciano Fasano sull'ultimo numero del "Mulino" (1/2016) "le primarie funzionano secondo una logica garbage in/garbage out: se entra spazzatura non può che uscirne nuovamente quella". leggi tutto

L’ampliamento della “base democratica”

Luca Tentoni - 05.03.2016

A pochi mesi dalle elezioni amministrative e forse a un anno (o poco più) dalle politiche, è opportuno interrogarsi sulle cause e sulla natura di un astensionismo che sicuramente sarà vasto e forse addirittura maggioritario (almeno alle "comunali"). Va premesso che l'astensione non è da considerarsi automaticamente come un rifiuto della democrazia e degli istituti rappresentativi. Come si è spesso spiegato, l'area del non voto è estremamente composita: oltre a comprendere chi non va mai alle urne per impossibilità di vario genere o per indifferenza, c'è anche chi non ci va perchè non crede nella democrazia, ma anche chi vuole esprimere così la sua protesta e, infine, chi non trova nell'offerta politica e partitica ciò che più gli somiglia o gli aggrada. Un 40-50% di astensionismo (che può peraltro ridursi a un 30-35% alle politiche) non equivale assolutamente alla "secessione" del corpo elettorale e allo strappo del tessuto democratico del Paese. Però qualche riflessione su come recuperare la partecipazione (fermo restando che una buona metà del "partito del non voto" non sarà mai riportata alle urne, proprio perchè la quota di astensionismo fisiologico e di protesta irreversibile è praticamente impossibile da riassorbire) bisognerebbe farla. Si tratta, in altre parole, di riscoprire e riadattare ciò che un tempo si definiva “allargamento della base democratica”, intendendo non solo lo specifico tema della partecipazione elettorale, ma – più in generale – considerando anche la necessità di una “recupero” del rapporto fra cittadini e istituzioni. leggi tutto

Terza Repubblica e ricambio delle leadership

Luca Tentoni - 27.02.2016

I soggetti politici maggiori della nascente Terza Repubblica hanno in comune una caratteristica: sono tutti “partiti del leader”. Si è giunti a questo punto per le vie più svariate. Il Pd, partendo dalla lunga tradizione “classica” della “Ditta”, ci è arrivato dopo una serie di avvenimenti: lo strano risultato elettorale del 2013; le primarie che hanno condotto Renzi alla guida del partito; il repentino “cambio della guardia” a Palazzo Chigi fra Letta e lo stesso ex sindaco di Firenze, che ha così unificato premiership e leadership. Il M5S è nato come “partito di Grillo”: il rapporto fra il vertice (il portavoce) e la base di simpatizzanti ed elettori è stato mediato attraverso la “Rete” di Internet e dei social network. Quello fra il “padre padrone” di Forza Italia Silvio Berlusconi e i sostenitori “azzurri” è invece stato caratterizzato da un abile uso delle tecniche di comunicazione di massa quali la televisione. Infine, il quarto “partito del leader”, la Lega, ha avuto sempre un legame quasi fisico fra il Capo (Bossi) e il territorio. A questo proposito, l’avvento di Salvini ha mutato in parte le forme comunicative (aggiungendo i social network e soprattutto la televisione) ma ha conservato la natura leaderistica del Carroccio. Oggi, dunque, il sistema politico italiano è nelle mani di poche persone, ma che indicazioni abbiamo circa il futuro? leggi tutto

Appunti sulla "Terza Repubblica"

Luca Tentoni - 20.02.2016

La transizione avviata con le elezioni del 2013 non si concluderà, probabilmente, neppure se al referendum sulla revisione della Carta Repubblicana dovessero prevalere i al progetto di riforma. Un quadro politico-istituzionale, infatti, non si caratterizza solo per l'impianto "formale" che lo sorregge (la Costituzione, le leggi come quella elettorale) ma anche per una serie di fattori, fra i quali spicca la struttura del sistema partitico. Quest'ultimo è tanto importante che - ristrutturandosi profondamente, fra il 1992 e il 1996 - ha "imposto" un passaggio alla "Seconda Repubblica" avvenuto in realtà a Costituzione immutata. Stavolta, data la vastità della revisione della Carta Fondamentale introdotta col voto delle Camere (il testo sarà sottoposto a ottobre-novembre al giudizio del popolo) potremmo osservare un fenomeno opposto rispetto a quello di venti anni fa. Passando alla "Terza Repubblica", il sistema dei partiti resterà verosimilmente strutturato sui tre soggetti (due costituiti da singoli gruppi - Pd e M5S - e uno "plurale", un centrodestra dai contorni ancora non ben definiti) che hanno dominato le scorse elezioni parlamentari. In realtà, il quadro istituzionale non sarà affatto modificato soltanto nei suoi risvolti costituzionali, ma vedrà le forze politiche adattarsi ad un nuovo sistema elettorale (l'Italicum). Un cambiamento - persino se a vincere fossero i no alla riforma - avverrà comunque nel breve-medio periodo, perchè l'attuale sistema dei partiti è - come si accennava all'inizio - in piena transizione: non siamo più nella Seconda Repubblica, ma non si è ancora approdati alla Terza. leggi tutto