Appunti sulla "Terza Repubblica"
La transizione avviata con le elezioni del 2013 non si concluderà, probabilmente, neppure se al referendum sulla revisione della Carta Repubblicana dovessero prevalere i sì al progetto di riforma. Un quadro politico-istituzionale, infatti, non si caratterizza solo per l'impianto "formale" che lo sorregge (la Costituzione, le leggi come quella elettorale) ma anche per una serie di fattori, fra i quali spicca la struttura del sistema partitico. Quest'ultimo è tanto importante che - ristrutturandosi profondamente, fra il 1992 e il 1996 - ha "imposto" un passaggio alla "Seconda Repubblica" avvenuto in realtà a Costituzione immutata. Stavolta, data la vastità della revisione della Carta Fondamentale introdotta col voto delle Camere (il testo sarà sottoposto a ottobre-novembre al giudizio del popolo) potremmo osservare un fenomeno opposto rispetto a quello di venti anni fa. Passando alla "Terza Repubblica", il sistema dei partiti resterà verosimilmente strutturato sui tre soggetti (due costituiti da singoli gruppi - Pd e M5S - e uno "plurale", un centrodestra dai contorni ancora non ben definiti) che hanno dominato le scorse elezioni parlamentari. In realtà, il quadro istituzionale non sarà affatto modificato soltanto nei suoi risvolti costituzionali, ma vedrà le forze politiche adattarsi ad un nuovo sistema elettorale (l'Italicum). Un cambiamento - persino se a vincere fossero i no alla riforma - avverrà comunque nel breve-medio periodo, perchè l'attuale sistema dei partiti è - come si accennava all'inizio - in piena transizione: non siamo più nella Seconda Repubblica, ma non si è ancora approdati alla Terza. Finora il dibattito sul futuro del sistema politico-istituzionale si è incentrato sul ruolo che la riforma del bicameralismo e l'introduzione dell'Italicum dovrebbero giocare, ma non si è tenuto conto di variabili non facilmente “gestibili”. Una fra le più rilevanti è rappresentata da un fenomeno assente durante la Prima Repubblica ma molto diffuso durante la Seconda: quello che certa pubblicistica ha definito, in modo poco elegante ma efficace, come "transumanza parlamentare". Il venir meno delle ideologie, dei partiti rigidamente strutturati e coesi ha, insieme all'affermarsi di nuove fedeltà basate su leader carismatici (nel vago ricordo della tarda età liberale a cavallo fra i secoli XIX e XX), reso molto "fluida" l'appartenenza ai gruppi parlamentari. Si può dire, nel momento in cui si discute di "libertà di coscienza" sulle unioni civili, che la Seconda Repubblica è stata il luogo dove si è affermata (di volta in volta, fra il biasimo di chi ha dovuto subire delle perdite e l'apprezzamento di chi, invece, ne ha beneficiato) la massima libertà di mutare orientamento e partito. Questo elemento non è stato toccato dalla riforma costituzionale, perchè riguarda il divieto di vincolo di mandato, cioè un caposaldo del nostro regime democratico. Tuttavia, l'esistenza di una sola Camera politica (nell'ipotesi che faremo da qui in poi, di vittoria dei sì al referendum costituzionale) renderà ogni componente dell’Assemblea di Montecitorio doppiamente decisivo rispetto al passato. Il potere di quelli che potremmo chiamare "deputati di confine" fra governo e opposizione può inoltre aumentare proprio in ragione del sistema elettorale: l'Italicum, infatti, attribuisce 340 seggi su 630 al partito che vince, cioè appena ventiquattro oltre la metà più uno dei componenti della Camera. Non è difficile pensare che la possibilità, per ventisei deputati di maggioranza, di far cadere il governo o, per altrettanti di opposizione, di sostiture i dissidenti del partito vincitore delle elezioni, generi ulteriori tensioni. Chi avrà un "pacchetto" di poco meno di una trentina di seggi di maggioranza potrà orientare la politica del governo o quantomeno condizionarla in determinati passaggi, depotenziando così tutti gli argini che proprio la riforma costituzionale e l'Italicum hanno cercato di innalzare a difesa della governabilità e del potere dell'Esecutivo in un sistema che nelle intenzioni dovrebbe avere alcuni tratti in comune con quello Westminster descritto da Arend Lijphart. La tenuta dei gruppi parlamentari e dei soggetti politici (tutta da verificare, in un periodo di instabilità non solo politica, ma sociale ed economica) va inoltre valutata, nel prefigurare il passaggio ad una possibile Terza Repubblica, alla luce di altri due elementi: i "partiti parlamentari" e la forza delle leadership. Durante la Prima Repubblica i primi erano rari, frutto di divisioni spesso drammatiche dei partiti (fra tutti, la scissione socialdemocratica nel 1947, poi quella monarchica nel ‘54, il Psiup nel '64, la scissione del Psu nel '69, l'espulsione dal Pci - nel ’69 - del gruppo del "Manifesto", la nascita – dal Msi - di Democrazia Nazionale nel ‘76). In tutti i casi, avevamo nuovi soggetti politici che si sarebbero misurati col giudizio degli elettori. Il gruppo Misto non era folto. Per contro, le leadership (soprattutto quelle del partito di maggioranza relativa, la Dc) erano - dopo il periodo degasperiano - deboli e comunque destinate a incontrare resistenze tali da abbatterle, prima o poi (Fanfani, De Mita) o fiaccarle. Nella Seconda Repubblica, invece, il panorama è stato completamente diverso: abbiamo avuto leader forti e partiti parlamentari destinati talvolta a durare pochi mesi. La forza dei governi della Terza Repubblica dipenderà molto da quanto, sulla scorta del discorso già fatto sui cambiamenti di gruppo, resterà vivo e forte il fenomeno dei "partiti parlamentari" sorti per sostenere un Esecutivo o per opporvisi. Inoltre, la tenuta e la continuità alla guida del governo dipenderà dalla forza delle leadership. Così com'è disegnato, infatti, il sistema istituzionale che scaturirà dalla riforma non prevede la sfiducia costruttiva o la fine automatica della legislatura in caso di dimissioni del Presidente del Consiglio, il che lascia spazio alla nascita di maggioranze non pienamente corrispondenti a quella uscita vittoriosa dalle elezioni per la Camera dei deputati. Nessuna garanzia, inoltre, permette al leader del partito che ha conquistato i 340 seggi del "premio" di restare a Palazzo Chigi per l'intera durata della legislatura. Un cambio al vertice del partito maggioritario può comportare - come ad esempio è avvenuto nel 2014 - un avvicendamento alla guida del governo. In sintesi, non possiamo sapere fin da adesso se e quanto il modello istituzionale della Terza Repubblica influenzerà il sistema dei partiti e il comportamento degli eletti o viceversa. È probabile che i primi anni siano caratterizzati da spinte e controspinte di assestamento. I precedenti sono chiari: la Prima Repubblica ha avuto, con la proporzionale quasi pura e il bicameralismo, formule politiche di lunga durata ma governi brevi, mentre nella Seconda il centrosinistra e il centrodestra non hanno mai vinto due elezioni consecutive e le rispettive formule non hanno avuto cicli complessivamente più lunghi di otto o nove anni. Inoltre, nella Prima Repubblica abbiamo avuto un Presidente del Consiglio ininterrottamente in carica per circa otto anni (De Gasperi) sia pure con differenti maggioranze e combinazioni politiche, ma anche molti premier rimasti al governo per pochi mesi nell'ambito di "formule" longeve: tutto è dipeso dal sistema dei partiti. Nella Seconda Repubblica la concidenza fra leadership e premiership è stata forte e totale solo per il centrodestra (Berlusconi) ma molto più labile e discontinua per il centrosinistra. Se il partito che vincerà le prime elezioni della Terza Repubblica sarà forte e coeso, la nostra democrazia raggiungerà "l'obiettivo Westminster", ma non necessariamente questa condizione sarà duratura. Sia perchè, come ricordavamo, un ceto politico abituato alla trasmigrazione non ha motivo nè ostacoli tali da essere portato a mutare avviso, sia perchè non è escluso che dissidi interni al partito vincitore delle elezioni non scompaginino gli assetti. Non è improbabile, infine, che in una legislatura il partito di governo si trovi a constatare di non essere in grado di competere con successo per riconquistare il "premio" alle elezioni seguenti e decida, perciò, di introdurre un sistema elettorale "alla tedesca", accentuando la natura parlamentare del quadro istituzionale. In tal caso, con la proporzionale, avremmo una Camera politica in meno rispetto ad oggi (il Senato) ma non necessariamente un sistema più centrato sull'Esecutivo e sul governo monocolore di legislatura.
di Luca Tentoni
di Paolo Pombeni