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24 aprile 2024
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Il “doppio turno” francese

Luca Tentoni - 15.04.2017

Il 23 aprile i francesi voteranno per il primo turno delle elezioni presidenziali. L'articolo 7 della loro Costituzione specifica che il Capo dello Stato "è eletto a maggioranza assoluta dei voti espressi. Se tale maggioranza non viene conseguita al primo scrutinio, si procede ad una nuova votazione, nel quattordicesimo giorno seguente. Possono presentarsi solo i due candidati che, a parte un eventuale ritiro, hanno ottenuto più voti al primo turno". Nella storia della Francia, da quando, nel 1962, la riforma costituzionale voluta da Charles De Gaulle ha reintrodotto (e non introdotto ex novo: il 10 e l'11 dicembre 1848, infatti, Carlo Luigi Napoleone Bonaparte era stato eletto col 74,31% dei voti espressi, pari a 5.587.759 su 7.542.936 votanti) l'elezione diretta del Presidente della Repubblica, nessun presidente è stato mai eletto al primo turno: nel 1965 (5-19 dicembre) De Gaulle ebbe il 44,65% dei voti (andò al ballottaggio - vincendolo col 55,2% dei suffragi popolari - con François Mitterrand, giunto secondo col 31,72%); nel 1969 (1-15 giugno) Georges Pompidou ottenne il 44,47% (Alain Poher 23,31%), vincendo poi col 58,21%; nel 1974 (5-19 maggio) fu Mitterrand a classificarsi inizialmente primo, col 43,24%, ma Valéry Giscard d'Estaing (32,6% al primo turno) vinse al ballottaggio col 50,81%; nel 1981 (26 aprile-10 maggio) fu invece Mitterrand (25,85% al primo turno, 51,76% al secondo) a battere Giscard d'Estaing (28,31% al primo turno, 48,24% al secondo); Mitterrand vinse inoltre nel 1988 (24 aprile-8 maggio) leggi tutto

Appunti sulla crisi della democrazia

Luca Tentoni - 08.04.2017

Alla vigilia di una stagione di importanti appuntamenti elettorali (in Francia, le presidenziali e le legislative; in Germania, le elezioni per il Bundestag; in Italia, le amministrative e - a fine anno o comunque all'inizio del prossimo - le politiche) ci si interroga sullo stato delle nostre democrazie, sottoposte non ad un normale processo di adattamento ai tempi, ma stressate da una crisi economica che ha diviso ed esasperato la società, introducendo nuove dimensioni di conflitto. Se da un lato le famiglie politiche tradizionali spesso non riescono a canalizzare lo scontento, la protesta e neppure a soddisfare del tutto la semplice richiesta di un maggior ascolto che viene dalla società, dall'altro si affermano soluzioni apparentemente facili, tanto seducenti quanto ricche di pericolose controindicazioni. Il più delle volte assistiamo a un voto marcato dalla sfiducia verso gli uscenti, più che dall’adesione a soluzioni politiche, economiche e sociali alternative: ecco perchè il consenso ad alcuni partiti antisistema sembra del tutto anelastico e impermeabile rispetto a vicende e a situazioni che invece (a parità o somiglianza di episodi) colpiscono duramente sul piano elettorale i partiti tradizionali. Inoltre, alla scarsa affluenza alle urne si accompagna un tasso di fiducia nei partiti e nella classe politica mai così basso leggi tutto

La diaspora liberaldemocratica

Luca Tentoni - 01.04.2017

Il giorno successivo alle celebrazioni del sessantesimo anniversario della Comunità europea, il 26 marzo scorso, si ricordava - molto in sordina, peraltro - la scomparsa di Ugo La Malfa (avvenuta nel 1979). Il leader repubblicano era uno dei più convinti europeisti, però la sua eredità politica - e in generale quella dei liberal-democratici, degli azionisti e dei liberali italiani - sembra essersi smarrita nella Seconda Repubblica, diluita in grandi contenitori partitici di diversa ispirazione ideale. Al Parlamento europeo, le grandi famiglie socialista e popolare sono composte da molti rappresentanti italiani, ma l'ALDE (il gruppo liberaldemocratico erede dell'ELDR) no. Repubblicani e liberali, ai quali potremmo aggiungere, con tutte le riserve possibili, i Radicali (i tre partiti diedero vita ad una lista comune alle europee del 1989, che però ottenne solo il 4,4%) hanno sempre rappresentato un'"Italia di minoranza". I percorsi politici di Pri e Pli, che sono stati comuni negli anni Cinquanta, si sono però distinti e allontanati nettamente con l'approssimarsi della stagione del centrosinistra; negli anni Settanta, inoltre, il ruolo del Pri nell'incontro fra Dc e Pci fu ben lontano dall'atteggiamento che i liberali assunsero nei riguardi di quella operazione politica. Con la fine del decennio e l'avvio della stagione del pentapartito, tuttavia, repubblicani e liberali si riavvicinarono, giungendo persino leggi tutto

La proporzionale e gli effetti sul sistema politico

Luca Tentoni - 25.03.2017

Ormai la legislatura è entrata nel suo ultimo anno di vita. A meno di grosse sorprese, si andrà a votare per il rinnovo di Camera e Senato con sistemi proporzionali non puri, ma quasi: le clausole di sbarramento per l'accesso alla ripartizione dei seggi e il lontanissimo premio di maggioranza per Montecitorio (per conseguire il quale servirebbe il 40% dei voti: una percentuale oggi inarrivabile per ogni partito o cartello elettorale) cambiano poco la sostanza della competizione. Si tratta di una novità assoluta nella storia della Seconda Repubblica. Sebbene una qualche forma di "gara" proporzionale si sia sempre mantenuta (nel 1994-2001 con la quota del 25% del Mattarellum e nel 2006-2013 con la ripartizione del 45% dei seggi - in ambito nazionale per la Camera e regionale per il Senato - fra i partiti e le coalizioni non vincitrici delle elezioni) l'offerta politica e del sistema di voto hanno prodotto una competizione fra due poli (nel 2013 tre e mezzo, con Scelta Civica più piccola di Centrosinistra, Centrodestra e M5S), vissuta a lungo "psicologicamente" dagli italiani come una scelta binaria. I partiti coalizzati, s'intende, hanno sempre mantenuto un approccio proporzionale o almeno "pro quota" nella definizione di candidature nei collegi uninominali, delle coalizioni e delle liste, però l'elettore medio leggi tutto

La "prima coorte" elettorale della Repubblica

Luca Tentoni - 18.03.2017

C'è un segmento di elettorato che ha attraversato quasi mezzo secolo della storia repubblicana: quello di chi è nato nel decennio 1946-1955. La prima “coorte” ha caratteristiche particolari, diverse dalle generazioni precedenti e in buona parte anche dalle successive. Questi italiani si sono "socializzati" e sono entrati in contatto con la politica negli anni '60. Alcuni hanno vissuto attivamente il Sessantotto. Questa coorte ha fatto il suo ingresso nel "mercato elettorale" fra il 1968 (i soli nati nel 1946-1947: la maggiore età si conseguiva allora a 21 anni, abbassata a 18 anni nel '75) e il 1975 (regionali) - 1976 (politiche). Da subito, i "primi nati della Repubblica" si sono caratterizzati per un orientamento più laico e più di sinistra. Già nel 1972, un sondaggio (effettuato due anni prima del referendum) indicava che la percentuale dei "no" all'abolizione del divorzio (introdotto in Italia nel 1970) era intorno al 60% fra i nati nel decennio 1946-'55 (nostra rielaborazione dei dati di "Italia al voto. Le elezioni politiche della Repubblica", a cura di Luca Ricolfi, UTET 2012), mentre nell'intero campione era ancora al 44% (nel 1974, il 19 maggio, sarebbe finita 59,3 a 40,7 per il "no"). Nel passaggio fra le regionali del 1975 e le politiche del 1976 parte consistente di questa coorte andò a rafforzare l'elettorato del Pci. In quella occasione, la distanza leggi tutto

Il voto dei giovani

Luca Tentoni - 11.03.2017

Durante la battaglia referendaria del 2016 si è parlato della difformità fra le due Camere; in particolare, si è rilevato che i deputati sono espressione di un corpo elettorale (formato da tutti i maggiorenni) più ampio rispetto a quello per il Senato (costituito, quest’ultimo, dagli italiani che hanno compiuto 25 anni d'età). In più, la distribuzione regionale dei seggi può (trascurando il fenomeno del "voto disgiunto" Camera-Senato, che appare non molto significativo) favorire la divaricazione fra i risultati e i rapporti di forza all'interno dei due rami del Parlamento. Ovviamente, con la campagna tutta concentrata sulla differenziazione del bicameralismo (e sull'Italicum, altro elemento che aumentava la differenza, essendo valido per la sola Camera dei deputati) si è però perso di vista un dato di fondo, che invece sarà fra le "chiavi" più importanti delle prossime elezioni politiche italiane: il fattore generazionale. Si tratta di un fenomeno non solo italiano: in Francia (alla quale si guarda in questo periodo con grande attenzione per i possibili sviluppi dell'elezione presidenziale) un sondaggio Elabe (condotto fra il 30 gennaio e l'8 febbraio 2017) ci spiega che - mentre l'elettorato di Emmanuel Macron è abbastanza omogeneo per classi d'età - le differenze fra voto giovanile si riscontrano soprattutto nel confronto fra Marine Le Pen e François Fillon: leggi tutto

Il voto di chi (forse) non vota

Luca Tentoni - 04.03.2017

In occasione delle elezioni amministrative che, nella prossima primavera, riguarderanno 25 capoluoghi di provincia e molti altri comuni, il tasso di partecipazione elettorale sarà - come al solito - al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica per un giorno o due, in attesa dei risultati di candidati sindaci e partiti. In seguito, l'astensionismo tornerà ad essere un argomento per pochi studiosi di sociologia elettorale. Eppure, come ha dimostrato anche il recente referendum del 4 dicembre 2016 sul progetto di revisione costituzionale, la mobilitazione di quella fascia dell'elettorato che non vota sempre può essere importante per rafforzare una tendenza o mutarla. In Italia, come in molte altre democrazie, ci sono diversi segmenti dell'elettorato: quello "fedele", che partecipa a tutte le competizioni (o alla maggior parte di quelle in programma: in occasione di alcuni referendum, a causa dell'invito dei partiti ad astenersi o dello scarso interesse del quesito, l'affluenza scende fino al 30%: nel primo caso, però, si tratta di un non voto in qualche modo "partecipativo", perché tendente a far fallire la possibile vittoria degli abrogazionisti referendari) e che oggi si può quantificare - a livello nazionale - poco sotto o intorno al 50% degli aventi diritto al voto; quello "intermittente", che si mobilita di più in certe occasioni (le politiche), leggi tutto

La "quadriglia" repubblicana

Luca Tentoni - 25.02.2017

La scissione del Partito democratico ha riproposto il problema della frammentazione politica. Il sistema dei partiti della Prima Repubblica aveva almeno due caratteristiche diverse rispetto a quello della seconda: l'indice di bipartitismo (cioè la percentuale dei voti ai primi due soggetti politici) più alto nel periodo 1948-'92 che nel 1994-2013 e un sistema elettorale puramente proporzionale (a fronte del Mattarellum e del Porcellum che sono stati oggettivamente premianti per i partiti maggiori). A ben guardare i dati elettorali, tuttavia, la storia di 70 anni di Repubblica si può comprendere meglio se la si divide in almeno quattro periodi: due riguardano gli anni del primo sistema dei partiti e due quelli fra il 1994 e oggi. Nella "prima Repubblica dei partiti", che va dal 1948 al 1976, l'indice di bipolarismo passa dall'eccezionale 79,49 del duello Dc-Fronte Popolare del '48 ad un più ragionevole livello del 63-66% dei voti che resta immutato fino al 1976, quando un altro duello (Dc-Pci) lo riporta al 73,08. In questo periodo, il numero dei partiti con almeno l'1% dei voti è quasi sempre pari ad otto (7 nel 1948, 9 nel 1958, otto in tutti gli altri casi). Questi primi otto partiti ottengono fra il 93,57 e il 98,48% dei voti validi espressi, con una media intorno al 96,7%. in quella che comprende i soggetti politici leggi tutto

Le incognite della riforma elettorale

Luca Tentoni - 18.02.2017

In queste settimane le forze politiche e il Parlamento sono chiamati a riscrivere le leggi elettorali, dopo la sentenza 35/2017 della Corte Costituzionale. Un accordo appare improbabile, anche perché non è chiaro cosa si vuole dal sistema "che trasforma voti in seggi". Alla base della scelta di un modello esistente o dell'elaborazione di un nuovo meccanismo c'è sempre uno scopo: nel 1948, quello di rappresentare i partiti e la società così com'erano (in un sistema proporzionale, inoltre, la centralità della Dc aumentava le possibilità che una coalizione di governo non potesse non ricomprendere i democristiani); nel 1953, la cosiddetta "legge truffa" (o "legge Scelba") tendeva a premiare l'unica possibile coalizione di partiti che potesse raggiungere il 50% più uno dei voti (quella formata da Dc e alleati minori centristi) isolando le estreme di destra e di sinistra per sottorappresentarle e, soprattutto, recuperare alla Dc - in forma di "voto utile" - il consenso andato "in libera uscita" a destra nel Mezzogiorno in occasione delle amministrative del '52; nel 1994, invece, uno scopo politico non c'era: in presenza del pronunciamento popolare sulla legge elettorale del Senato e in pieno sgretolamento del sistema dei partiti, si adottò un meccanismo simile al "ritaglio referendario" (in quella occasione ci fu chi si illuse, leggi tutto

Il circuito del consenso

Luca Tentoni - 11.02.2017

Nelle democrazie contemporanee, il ruolo dell'opinione pubblica appare predominante: i sondaggi ci restituiscono quotidianamente indicazioni sulle tendenze politiche e sociali che si vanno affermando, tanto che la classe politica e gli operatori dei mezzi di comunicazione di massa finiscono per attribuire a questi strumenti di misurazione un valore ben maggiore rispetto a quello che oggettivamente hanno. Sembra quasi che le "democrazie avanzate" non sappiano e non possano fare a meno di quello che Patrick Champagne, nel suo "Faire l'opinion - Le nouveau jeu politique" (edito nel 1990, ma giunto con più nuove edizioni fino ai giorni nostri) definisce come una situazione di "elezioni permanenti": "anche se i deputati restano legalmente eletti per cinque anni, la loro legittimità dipende ormai in modo crescente dai risultati dei sondaggi elettorali e dal livello di popolarità". In altre parole, secondo lo studioso francese, gli uomini politici, che sono eletti per decidere, finiscono per essere sottomessi ad una "volontà popolare" espressa nei sondaggi e che sembra rendere possibile il prevalere "di una sorta di democrazia diretta" che dipende, giorno dopo giorno, dal giudizio degli interpellati sui vari temi. Secondo Champagne, la pratica è alla base di un "pensare per sondaggi" che va affermandosi, cioè la tendenza" a convocare in permanenza gli intervistatori per decidere in nome d'una opinione che è stimata come maggioritaria". leggi tutto