Le elezioni comunali del 10 giugno
Dopo i recenti sviluppi della crisi di governo, le elezioni comunali del 10 giugno prossimo possono assumere un'importanza di gran lunga maggiore rispetto a quella che avrebbero avuto in un contesto normale. Come abbiamo detto più volte, non è agile e neppure molto appropriato comparare il voto politico con quello amministrativo, per la presenza di liste civiche, di un'offerta che alle comunali è spesso diversa e articolata rispetto a quella nazionale e per il fatto che, il 10 giugno, alcuni simboli non compariranno sulle schede di tutti i centri interessati dal rinnovo di sindaci e consigli. Il M5s, per esempio, non sarà presente a Siena e a Vicenza. Tuttavia si può fare un raffronto con le elezioni comunali precedenti, limitandoci ai venti capoluoghi di provincia che vanno al voto (Brescia, Sondrio, Treviso, Vicenza, Imperia, Massa, Pisa, Siena, Terni, Ancona, Viterbo, Teramo, Avellino, Barletta, Brindisi, Catania, Messina, Ragusa, Siracusa, Trapani, ai quali - per completare il quadro - potremmo aggiungere Udine, dove si è votato qualche settimana fa) nel quadro di una consultazione che interessa circa 800 comuni e sette milioni di italiani. Rispetto al voto di cinque anni fa (in alcuni centri, tuttavia, il consiglio comunale uscente è stato eletto dopo il 2013) il panorama politico nazionale e locale è completamente leggi tutto
Muri e muretti: la “legittimazione a governare” fra Prima e Seconda Repubblica
Una delle principali caratteristiche della Seconda Repubblica è stato il superamento della “conventio ad excludendum”, cioè del perimetro politico al di fuori del quale c'erano partiti (compreso il Pci, il quale era però nell’”arco costituzionale” e che – non più considerato antisistema - rientrò parzialmente in gioco nel 1976-’79) che mai avrebbero potuto entrare organicamente in un governo. Fu con le elezioni del 1994 che An (Msi) e la Lega entrarono nella "stanza dei bottoni" con propri ministri di peso. I missini stavano portando a compimento la loro marcia verso Alleanza nazionale, in un percorso di evoluzione verso una destra "di sistema e di governo". Il Carroccio, invece, manteneva le proprie parole d'ordine (nel 1996, conclusa l'alleanza con Forza Italia e finita anche l'esperienza del sostegno al governo Dini, Bossi sarebbe arrivato a chiedere la secessione del Nord) ma, nel contempo, conquistava posizioni di rilievo nelle istituzioni (come la presidenza della Camera, affidata alla giovane deputata Irene Pivetti). La Lega "di governo" durò poco, a livello nazionale (sette mesi con Berlusconi, più l'anno di appoggio a Dini) ma in ambito locale la presenza del Carroccio nelle amministrazioni comunali, regionali e provinciali - già forte a partire dal 1990 - divenne ancora più robusta e capillare. Paradossalmente, però, leggi tutto
Le democrazie e il nuovo "cleavage"
Nei sistemi democratici si è ormai creata una nuova contrapposizione, un "cleavage" che supera - ma in parte potrebbe anche riassumere - le quattro fratture classiche dell'elettorato delineate a suo tempo da Stein Rokkan: fra Stato-Chiesa, centro-periferia, borghesia-classe operaia, élites urbane-élite rurali. Le "nouveau clivage", come lo definisce Jérôme Forquet nel suo recentissimo volume (Ed. Cerf, Paris, 2018), è il protagonista di tre consultazioni popolari storiche come quella del 2016 sulla Brexit, l'elezione di Trump negli Usa, la vittoria di Macron in Francia. In questi casi, ma anche in altre elezioni europee, come per esempio le austriache, è emersa una distanza fra quelle che potremmo definire due "agglomerazioni elettorali": la prima, formata dagli sconfitti della mondializzazione e da chi teme l'aumento dei flussi migratori; la seconda, costituita dagli abitanti delle metropoli "globalizzate" e dai ceti che un tempo si sarebbero definiti "affluenti". Sebbene per certi aspetti questo nuovo "cleavage" sembri riportarci a vecchie contrapposizioni fra classi e ceti, la questione non è semplice. Lo si potrebbe constatare anche esaminando i dati delle recenti elezioni italiane (che Fourquet non ha incluso nel suo studio), sebbene nel nostro paese ci siano peculiarità che rendono meno netta la demarcazione che invece si nota nelle tre consultazioni esaminate dallo studioso francese. leggi tutto
Il voto del Friuli-Venezia Giulia
La discussione circa l'opportunità di attribuire valore di "test politico nazionale" a consultazioni locali ha occupato per due settimane le pagine dei giornali: prima col Molise, poi col Friuli-Venezia Giulia. Forse bisognerebbe chiarire alcuni punti sul tema. Il principale riguarda il differente approccio degli elettori nei confronti di consultazioni di diverso ordine. Un conto è scegliere il rappresentante al Parlamento nazionale, un conto il presidente della regione e il governo locale, un altro conto - infine - il sindaco e i consiglieri comunali. Sono dimensioni diverse sia a livello decisionale, sia a livello politico. Si può dire, anche guardando la differente composizione delle coalizioni (e la moltiplicazione delle liste) che il tentativo di ricondurre ad unità i raggruppamenti è complesso, quando sono molto eterogenei e soprattutto quando sono costituiti da liste civiche o "del sindaco" o “del presidente” presenti su una scheda (per regione o comune) ma non sulle altre (per la Camera, ad esempio). Volendo tentare a tutti i costi una comparazione - pur sempre ardita e poco consigliabile - si potrebbe far riferimento dunque alle coalizioni, ma con moltissima cautela. Il secondo punto riguarda il sistema elettorale: quello per le politiche non ha il voto disgiunto e neppure le preferenze, ma ha il collegio uninominale, leggi tutto
Appunti sulla crisi di governo
Questa lunga crisi di governo sta mettendo alla prova, oltre alle capacità di ascolto e mediazione del Capo dello Stato, anche la pazienza degli elettori. Tuttavia, è stata ed è l'occasione per portare alla luce alcuni aspetti poco valutati dall'opinione pubblica. Il primo è il ruolo del Quirinale. Ogni presidente ha il suo stile, ma il compito del Presidente della Repubblica è - in casi come questo - unico e insostituibile: si tratta di essere al tempo stesso notaio, arbitro, tessitore, facilitatore di intese, difensore delle istituzioni (e, di conseguenza, attivo nel sollecitare le forze politiche ad assicurare il buon funzionamento del sistema). Prima delle elezioni - e in questi giorni - qualcuno ha talvolta voluto strattonare l'arbitro, cercare di indurlo a prendere decisioni, non suggerendole ma anticipandole e pretendendole. Un buon arbitro deve sopportare, ascoltare, se necessario far valere la propria autorevolezza e infine la propria autorità, nell'interesse del Paese. Anche se non eletto direttamente dal popolo, il Capo dello Stato non ha bisogno di mettere la spada di milioni di voti sul piatto della bilancia: è una cosa che possono provare a fare, col dovuto garbo istituzionale, i vincitori, sempre che i numeri siano davvero tali da permettere loro di realizzare i desideri e le promesse fatte leggi tutto
Crisi, si chiude la "finestra" elettorale di giugno
Il percorso intrapreso in questi giorni dal Capo dello Stato per cercare di sbloccare la crisi sta chiudendo la "finestra" delle elezioni anticipate a giugno. Per votare il 24 - ultima data disponibile prima dell’"esodo" estivo di milioni di italiani - si dovrebbero sciogliere le Camere fra i 45 e i 70 giorni prima del voto, cioè fra il 15 aprile (che è già alle nostre spalle) e il 10 maggio. Considerando la mole di adempimenti, anche restringere l'intervallo a 55 giorni (sciogliendo il 30 aprile) sembra un azzardo, quindi esce di scena una delle ipotesi. È un grosso problema per i partiti, poiché non avere la carta di riserva del "voto subito" apre la strada, in casi estremi, ad un Esecutivo "balneare" che porti il Paese alle urne a fine settembre (con scioglimento delle Camere, perciò, ad agosto). Ma quest'ultima ipotesi potrebbe essere a sua volta poco praticabile, perché il nuovo Parlamento si insedierebbe a ottobre, ci sarebbero altre consultazioni (difficile, infatti, che dal voto-bis emerga una maggioranza netta) e si arriverebbe senza un governo nella pienezza delle funzioni all'appuntamento con le scadenze della legge di stabilità. Ce lo possiamo permettere? Quindi, non solo l'alternativa ad un accordo politico non è rappresentata dal voto a giugno, ma probabilmente è costituita da un leggi tutto
I limiti della tecnica, il ruolo della politica
Dopo il voto del 4 marzo, nel corso della crisi di governo, si è ricominciato a parlare di riforme elettorali. L'assunto di base è che per assicurare governabilità al Paese è necessario che un partito (o una coalizione omogenea) consegua la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le Camere. Se l’ingegneria elettorale - come vedremo - non è una panacea, anche l'obiettivo sembra poco centrato. Come abbiamo visto nello scorso intervento su Mentepolitica, dedicato alle crisi di governo e alla loro durata, la permanenza in carica di un Esecutivo non corrisponde necessariamente (alcune volte, quando "si tira a campare", non corrisponde affatto) ad una maggiore efficacia delle politiche. Inoltre, la storia (anche della Seconda Repubblica) dimostra che persino con un numero di seggi ben superiore alla maggioranza minima si possono susseguire tre o quattro governi (più o meno basati sulla stessa coalizione di partiti) nel giro di una legislatura. Dunque, il premio (esplicito, come quota fissa di seggi in più o implicito, come meccanismo di sovrarappresentazione dovuto, per esempio, all'assegnazione di pochissimi seggi per circoscrizione senza recupero dei resti) non assicura un governo di cinque anni; quest'ultimo, poi, non garantisce una maggior efficacia delle politiche dell'Esecutivo. In pratica, sembra che il meccanismo (il premio, la durata in leggi tutto
Italia: dal 1946, quasi sei anni senza governo
Dal primo luglio 1946 ad oggi, l'Italia ha avuto 65 crisi di governo, durate in media 33,23 giorni (contando anche quella in corso, con dati aggiornati all'8 aprile riprendendo uno studio pubblicato dall'autore di questo articolo prima nel 1989 sulla Voce Repubblicana e poi - con l'aggiunta di un testo di Guglielmo Negri - nel 1992, col titolo "L'instabilità governativa nell'Italia repubblicana"). In pratica, il Paese ha avuto un governo "in ordinaria amministrazione" per 2160 giorni (5 anni e 11 mesi: poco più di una legislatura, dunque). L'8,25% della nostra storia è trascorso fra consultazioni, incarichi esplorativi, elezioni anticipate, ricerca di nuovi assetti politici. I nostri governi hanno avuto una durata media di 402,75 giorni (dei quali 369,52 nella pienezza dei poteri), però la media non permette di distinguere fra Prima e Seconda Repubblica. In quest'ultima abbiamo avuto 14 governi contro i 51 della Prima, per complessivi 8723 giorni contro 17456 (durata media dei governi: 1946-1994, 342,27 giorni, 33,24 dei quali di crisi; 1994-2018, 623,07 giorni, 33,21 dei quali di ordinaria amministrazione). In parole povere, nella Seconda Repubblica abbiamo avuto governi molto più longevi (in media, 22 mesi e mezzo contro gli 11 mesi e 10 giorni della Prima Repubblica) ma crisi altrettanto lunghe. Non tutte le formule politiche degli ultimi ventiquattro anni, però, hanno avuto lo stesso "rendimento" sul piano della durata: il centrosinistra ha leggi tutto
Il ruolo del Colle, la responsabilità dei partiti
Il voto è l'espressione di una sovranità popolare "che è al vertice della nostra vita democratica e che si esprime, anzitutto, nelle libere elezioni" le quali aprono "una pagina bianca: a scriverla saranno gli elettori e, successivamente, i partiti e il Parlamento". Sono parole pronunciate il 31 dicembre scorso dal Capo dello Stato, in un discorso che - riletto oggi - appare insieme profetico e programmatico. In quelle pagine - e nell'azione del Presidente, che in questi anni ha confermato il suo ruolo di arbitro nelle contese politiche - c'è tutto il senso della responsabilità che i partiti, coadiuvati dal Quirinale, si assumeranno già nei prossimi giorni, con le consultazioni per la formazione di un nuovo governo. In questa prima fase, Mattarella eserciterà un ruolo di paziente ascolto, cercando di cogliere le sfumature, le possibili convergenze, gli spiragli per poter proseguire nel suo difficile percorso. Il suo sarà un compito "maieutico": dovrà far emergere le potenziali convergenze, non creare ciò che non esiste o che non è nella disponibilità dei partiti e dei leader. Un conto è la cosiddetta "moral suasion" del Quirinale, un altro conto è fare pressione. Sbaglia chi pensa che nello stile dell'attuale presidente ci siano vocazioni "cesaristiche" e che, dunque, possa "tirare la giacca" a qualcuno leggi tutto
Partiti, l'era della precarietà
Sebbene in misura ridotta rispetto al passaggio fra il 2008 e il 2013, anche le elezioni del 4 marzo scorso hanno fatto registrare una volatilità elettorale superiore al 25%. Un italiano su quattro (nella stima più prudente) ha cambiato voto rispetto alle politiche precedenti. Nel 2013 la volatilità si era attestata poco sotto il 40%. È una caratteristica tipica della Seconda Repubblica: nata dopo il terremoto elettorale del 1992 (soprattutto al Nord) e del 1994 (generalizzato ma più incisivo al Sud), l'epoca caratterizzata dallo scontro fra due (1996, 2001, 2006, 2008) o tre poli (1994, 2013, 2018) ha avuto un periodo centrale di stabilizzazione, anche se con una carsica tendenza al movimento che non è mai del tutto scomparsa. È vero: la Prima repubblica non aveva rapporti di forza del tutto cristallizzati, perché la Dc ha oscillato fra il 35,2% del 1946 e il 48,5% del 1948, per scendere al 40,1% nel 1953, risalire al 42,4% nel 1958, per poi finalmente assestarsi sul 38-39% nel periodo 1963-1979; così il Pci, che nel '76 è passato dal 27,2% al 34,4% e nel '79 è ridisceso al 30,4%. Quel che però sembrava eccezionale e strabiliante nei primi quarantacinque anni di Repubblica è diventato ordinaria amministrazione dal 1992 in poi. Prima ci fu un crollo della Dc (dal 34,3% al 29,7%) nell'anno in cui la Lega salì dallo 0,5% all'8,7% (1992). Poi, però, quella abitudine "sedentaria" dell'elettore medio si è trasformata in una mobilità che leggi tutto