È meglio giocare per non vincere?
I risultati delle ultime elezioni in Germania hanno confermato una tendenza ormai abbastanza consolidata in alcuni regimi democratici: se c'è una "Grande coalizione" uscente, i partiti di opposizione guadagnano consensi. Nel caso tedesco del 2017, CDU-CSU (-8,6%) e SPD (-5,2%) hanno fatto registrare diminuzioni in termini percentuali (a vantaggio soprattutto di Fdp e AfD), mentre - alla fine della "grande coalizione necessitata" del 2011-2013 - in Italia, fu il Pdl a pagare il prezzo più alto (il 15,8% dei voti, pari a poco più di sei milioni; anche il Pd, tuttavia, perse in voti assoluti 3,5 milioni di consensi e in percentuale il 7,8%). Per fare un esempio più lontano nel tempo si può risalire al 1979, quando il Pci cedette il 4% dei voti mentre la Dc restò sostanzialmente sulle posizioni del 1976 (si trattava, è bene ricordarlo, di una Grande coalizione in due fasi e del tutto anomala: un’intesa politica ma senza l’ingresso dei comunisti al governo e, all’inizio, addirittura con la sola “non sfiducia”). In tutti i casi, le opposizioni ne hanno tratto frutto: alla fine degli anni Settanta, da noi, i radicali ebbero un notevole incremento di voti (per l'epoca, quando la mobilità elettorale era modesta) passando dall'1,1 al 3,4%. Nel 2013, tranne Idv e Lega (che attraversavano un momento particolare) leggi tutto
Governare il vuoto
Alle prossime elezioni siciliane e, in primavera, alle politiche (senza dimenticare le regionali in Lombardia e Lazio) assisteremo quasi certamente alla conferma di una tendenza all'astensionismo ormai consolidata. Come abbiamo già sottolineato in altre occasioni, la partecipazione elettorale va vista in funzione dell'importanza che il cittadino attribuisce sia al tipo di consultazione (nazionale, regionale, comunale, europea), sia all'oggetto del voto (nel referendum, il tema; nel voto nazionale o locale, la mobilitazione può essere frutto dell'offerta politica - 2006, 2008 - o del momento storico - 1948, 1976 - o dalla "contendibilità" di un comune), sia alla valenza che il "non voto" può assumere (nei referendum, per far mancare il quorum e impedire la vittoria dei "sì" abrogazionisti; alle elezioni, l'espressione di una protesta o della mancanza di offerte accettabili o, ancora, il segno del distacco e della disaffezione verso un partito, il sistema politico o l'intero quadro istituzionale). Quel 24,8% di astenuti alle elezioni nazionali del 2013 (al quale va aggiunto il 2,7% di schede bianche e nulle, per un totale di 12,9 milioni di voti non espressi: il 27,5% degli aventi diritto) ha un valore apparentemente minore del 52,6% che nel 2012 non è andato alle urne per il rinnovo dell'assemblea regionale siciliana (senza contare che l’astensionismo, nell’Isola, ha toccato quota 57,1% alle europee 2014, mentre nel leggi tutto
Riflessioni sulla riforma elettorale
La nuova proposta di riforma elettorale per Camera e Senato torna ad assegnare una certa quota di seggi (circa il 37%, contro il 75% del Mattarellum) in collegi uninominali col plurality system, in ciascuno dei quali il candidato che arriva al primo posto è eletto. Non si tratta di un ritorno al maggioritario, perchè il meccanismo è di impianto proporzionale: il fatto che non ci sia scorporo dei voti utilizzati dai vincitori nei collegi uninominali è l'indizio che il fine dell'introduzione di questa quota di posti assegnata col "sistema inglese" è solo quello di dare un piccolo premio ai partiti che riescono a coalizzarsi e ad imporsi in un certo numero di realtà locali. Il nuovo Rosatellum non è il sistema tedesco, dunque (puramente proporzionale per chi supera lo sbarramento del 5%) e neppure il Mattarellum (il difetto del quale, a nostro modesto parere, era proprio la quota proporzionale, che "annacquava" l'effetto della competizione maggioritaria uninominale). È, più semplicemente, un modo per introdurre l'apparentamento di partiti (per vincere nei collegi) e nel contempo consentire la competizione fra le liste (per il 63% dei seggi). Un compromesso per superare il blocco delle posizioni dei partiti circa l'attribuzione di un premio di maggioranza: il Pd voleva continuare ad assegnarlo al primo partito, leggi tutto
I risvolti elettorali della "fine del dibattito pubblico"
L'uso non sempre ragionevole e accorto dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, il mutamento del linguaggio politico e il clima di campagna elettorale permanente rischiano di produrre effetti sullo stato delle democrazie? Se lo chiede Mark Thompson, nel suo "La fine del dibattito pubblico" (Feltrinelli, 2017). L'autore, che è stato direttore generale della Bbc (ora è al "New York Times") si pone un problema che riguarda le democrazie in generale, ma che in Italia appare particolarmente grave. Le nostre elezioni politiche si avvicinano, ma viviamo ormai da anni (se non dall'inizio della cosiddetta "Seconda Repubblica") in un clima di campagna elettorale senza soluzione di continuità. La mobilitazione generale finisce per ridurre al minimo gli spazi del confronto civile e persino della convivenza fra i sostenitori dei soggetti politici in competizione: "quando l'ideologia è al picco" - ricorda Thompson - "e per tanti partiti e per gli attivisti di tutti i partiti questo significa sempre, incontrare l'avversario a metà strada equivale a un tradimento". Citando il saggio "The Spirit of Compromise" di Amy Gutmann e Dennis Thompson (Princeton University Press, 2012), lo studioso stigmatizza il fatto che le campagne elettorali sono diventate interminabili, invece di essere limitate a periodi precisi prima delle elezioni. In primo luogo, dunque, leggi tutto
Sistemi elettorali, i risvolti politici del “disallineamento”
Non è detto che avere due sistemi elettorali diversi sia un problema per tutti. Per alcuni potrebbe essere addirittura una risorsa. La possibilità di apparentamenti per il Senato e non per la Camera permette di creare coalizioni regionali per Palazzo Madama e, nel contempo, di sviluppare una competizione serrata fra alleati/avversari per Montecitorio. Da una parte amici, dall'altra concorrenti; da un lato (Senato) il “piano A” - la coalizione fra simili – e dall'altro il “piano B” - dove ognuno corre per conto proprio e, all'apertura delle urne, può allearsi con chi vuole. Durante la Seconda Repubblica, invece, le cose sono andate diversamente: di solito, le coalizioni (per scelta politica, non per obbligo giuridico, s'intende) erano omogenee in entrambi i rami del Parlamento. Persino nel 1994, quando Berlusconi creò la doppia coalizione Forza Italia-Lega al Nord (con AN fuori) e Forza Italia-AN nel Centrosud, non ci furono differenze fra Camera e Senato. Stavolta, invece, per esempio, un elettore del Lazio potrebbe trovarsi sulla scheda per la Camera FI, Lega e FdI in concorrenza fra loro, mentre su quella per il Senato potrebbe vederli coalizzati. Da un punto di vista politico, ogni leader sarebbe autorizzato a dare la propria interpretazione dell'impegno preso con gli elettori. leggi tutto
Limiti e risorse della "Grande coalizione" all'italiana
Mentre in Germania si attende il voto del 24 settembre per sapere se sarà confermata al governo del Paese la "Grosse Koalition" fra i democristiani della Merkel e i socialdemocratici di Schulz, in Italia i due possibili alleati di una maggioranza consimile provano a mantenersi distanti: un po' per l'approssimarsi delle elezioni siciliane (che vedranno contrapporsi il candidato del Pd a quello del centrodestra unito), un po' perchè nessuno può dare per scontata oggi un'intesa "necessitata" che si concretizzerebbe eventualmente dopo le elezioni generali di marzo (con più che probabili durissime reazioni della Lega: Salvini, se escluso dall'accordo Berlusconi-Renzi, denuncerebbe il "tradimento" del Cavaliere). Inoltre, soltanto accennare all'eventualità di un'alleanza Pd-Ap-FI farebbe "fuggire" una parte dell'elettorato "di frontiera": da una parte, verso Mdp e sinistra; dall'altra, verso Lega e FdI. Secondo i sondaggi più recenti, oggi i tre partiti avrebbero complessivamente circa il 44% dei voti, contro il 47,2% ottenuto nel 2013 da Pd e Pdl. Con una buona campagna elettorale, Berlusconi, Renzi e Alfano potrebbero riuscire a raggiungere quota 47, ma la conquista della maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le Camere non sarà né scontata, né facile. I possibili protagonisti italiani della "Grande coalizione" si presentano alle elezioni politiche con alcuni problemi "strutturali" leggi tutto
Alla ricerca di un “vincitore”
Alle prossime elezioni regionali siciliane e alle "politiche" del 2018 assisteremo alla consueta disputa sull'interpretazione del voto. Ne avremo tre: quella degli esperti, tendenzialmente avalutativa e basata su molteplici criteri; quella della stampa, mirante a semplificare e a proclamare vincitori e sconfitti; quella dei partiti, che cercheranno a far propria l'interpretazione - fra tutte quelle proposte - per loro più lusinghiera, dunque vantaggiosa. Il problema della valutazione dei dati fa parte ormai del gioco politico: si può dire che è la fase supplementare della campagna elettorale, perchè - a livello di comunicazione - non basta (si può dire: talvolta non è neppure necessario) vincere ma bisogna trasmettere - inverare mediaticamente - l'immagine della propria affermazione. Ecco perchè occorre tenere distinta, nella lettura dei risultati da parte dell'opinione pubblica e della stampa, l'analisi scientifica operata dagli esperti da quella politica, veicolata dai partiti. Poichè talvolta i dati possono essere confrontati e analizzati prendendo come riferimento precedenti diversi (in ordine di tempo o di tipo della competizione) o campi particolari (territorio, condizione socio-culturale, PIL, classi di età) o privilegiando alcuni risultati (il numero dei seggi o dei voti in percentuale, per esempio) rispetto ad altri (i voti assoluti, l'incremento o il decremento in voti anzichè in percentuale) può capitare che si ingeneri leggi tutto
La complessa ricomposizione del centrodestra
Secondo tutti i sondaggi, i partiti di destra si apprestano a superare - dopo più di venti anni - il centrodestra di Berlusconi. La Lega (Salvini) e Fratelli d'Italia (Meloni) sono accreditati di una percentuale complessiva oscillante fra il 17 e il 20% dei consensi popolari, mentre Forza Italia non arriva mai, nelle diverse rilevazioni, oltre quota 14%. Questo cambiamento di rapporti di forza ci riporta alle prime due elezioni politiche della Seconda Repubblica: nel 1994, infatti, Lega (8,4%) e AN (13,5%) superarono, sia pur di poco (21,9 a 21) il partito di Berlusconi; nel 1996 (Lega 10,1%, AN 15,7% contro il 20,6% di FI, senza contare il 5,8% del CCD-CDU che riportò l'ago della bilancia in equilibrio) si arrivò ad un sostanziale pareggio reso simbolicamente inutile - oltre che dalla sconfitta elettorale contro l'Ulivo di Prodi - da altri due fattori (l'uscita del Carroccio di Bossi dall'alleanza di centrodestra e il progressivo avvicinamento al centro del partito di Fini). La caratterizzazione sempre più marcatamente di centrodestra di AN, inoltre (fino alla confluenza nel PDL) ha molto attenuato la natura di "destra" del partito di Fini, così come la stessa Lega di Bossi, dopo l'accentuazione secessionista e di protesta radicale del 1994-1996, si è ritrovata ad essere forza più di governo che di lotta per tutto il decennio iniziale del XXI secolo. leggi tutto
Riflessioni sul "mercato elettorale"
Anche i più recenti sondaggi certificano l'esistenza di tre grandi "aree" politiche, ciascuna con una consistenza variabile fra poco più d'un quarto e poco meno d'un terzo dell'elettorato italiano (Pd e soggetti alla sua sinistra; FI, Lega, FdI; M5S). O meglio, del 75% (nel 2013, ma se si votasse oggi quella percentuale potrebbe essere inferiore alle scorse politiche, sia pure non di molto) che va alle urne. In sintesi, nel 2013 avemmo (sul territorio nazionale, escludendo dunque la circoscrizione estero) 47 milioni di elettori: 11,717 non votarono (a costoro andrebbero aggiunti coloro i quali - 1,269 milioni - decisero di lasciare bianca la scheda o di annullarla); 8,7 milioni scelsero il M5S, 9,9 il centrodestra (Pdl, Lega, FdI, Destra), 10 il centrosinistra (Pd, Sel, Svp), 3,6 il centro (Scelta civica, Udc, Fli). Con un'affluenza al 70-72%, poniamo, oggi avremmo più o meno questa situazione: 13 milioni di astenuti e 33 milioni di voti validi ripartiti all'incirca in porzioni di 9-10 milioni per ciascuno dei blocchi principali (che, nel caso di centrosinistra e centrodestra, sono poco più che virtuali, perchè caratterizzati da una notevole eterogeneità). In altre parole, sia pure attraverso un notevole "rimescolamento delle carte" (soprattutto, da un lato, per quanto riguarda i voti centristi e, dall'altro, all'interno dei due poli più "antichi") potremmo avere risultati leggi tutto
2018, l'Italia "balneare"
Si parla molto, in queste settimane, della necessità del governo Gentiloni di muoversi fra numerosi scogli di natura politica, programmatica e numerica (soprattutto in Senato). Qualcuno è giunto a definire l'Esecutivo in carica una sorta di "governo balneare". Se fosse vero, sarebbe uno dei governi di transizione potenzialmente più duraturi della storia repubblicana. Quelli presieduti da Giovanni Leone nel 1963 e nel 1968 sono rimasti in carica per poco più di cinque mesi, per esempio, mentre i due guidati da Amintore Fanfani negli anni Ottanta durarono rispettivamente per otto (1982-'83) e tre mesi (1987). In quanto ai "governi amici", quello di Giovanni Goria restò in carica per otto mesi e mezzo fra il 1987 e il 1988, mentre quello di Giuseppe Pella (1953-'54) per cinque mesi. Ci furono poi altri Esecutivi di breve durata, come ad esempio quelli presieduti da Cossiga (due) e Forlani (uno) fra l'agosto del 1979 e il giugno 1981 (durata media: sette mesi circa); infine, fra il 2000 e il 2001 avemmo il secondo governo Amato, in carica per poco meno di 14 mesi. Paolo Gentiloni è a Palazzo Chigi dal 12 dicembre, dunque da poco più di sette mesi; se il suo mandato terminasse a febbraio, raggiungerebbe l'"Amato bis". In fondo, anche nel 2000-2001 si era alla fine di una legislatura leggi tutto