Ultimo Aggiornamento:
19 aprile 2025
Iscriviti al nostro Feed RSS

Le "asticelle" delle europee

Luca Tentoni - 04.05.2024
Europarlamento

A un mese dalle elezioni europee, cerchiamo di anticipare quelle linee guida per la lettura dei risultati che potranno tornare utili all'apertura delle urne. I principali partiti sono otto: tre di maggioranza (Fratelli d'Italia, la Lega, Forza Italia) e almeno cinque di opposizione (Pd, M5S, Verdi e sinistra, Stati Uniti d'Europa, Azione). Mentre cinque di questi si sono già presentati alle politiche e alle europee, i verdi e la sinistra si sono uniti dopo; infine, la galassia centrista si è composta e scomposta per poi parzialmente ricomporsi: alle europee del 2019 c'era solo Più Europa, mentre nel 2022 c'erano Più Europa da una parte e il cartello Azione-Italia viva dall'altra. Per il resto, si tratta di liste minori che aspirano a raggiungere la soglia del 4%, ma alle quali servirà una grande campagna di raccolta di consensi per riuscirvi. Gli stessi Verdi-sinistra, Stati Uniti d'Europa e Azione non partono da risultati "blindati" dalle scorse prove elettorali politiche ed europee (come l'8% di FI e Lega, tanto per capirci), quindi c'è il rischio che la rappresentanza italiana all'Europarlamento finisca per essere composta da cinque o sei partiti. I riflettori sono comunque accesi sulle due liste maggiori - FdI e Pd - e sulla Lega (il futuro della leadership di Salvini dipende, ironia della sorte, proprio da quel voto per le europee che nel 2019 gli regalò un incredibile e inatteso 34,3% dei consensi, seguito da un rapido declino elettorale). Partiamo dunque dal partito della Meloni, che alle politiche ha avuto il 26% (il 6,4% delle europee non conta, perchè farà meglio del 2019: nessuno scommetterebbe su un tracollo di venti punti di FdI) ma che schiera in lista la premier proprio perchè l'obiettivo che può essere considerato abbordabile è il 28%. Sotto il 26, è una sconfitta; fra il 26 e il 27, un risultato più agro che dolce; il 28 sarebbe molto buono, ma col 30 a Palazzo Chigi si brinderebbe. Il tutto, a maggior ragione, se il quadro generale vedesse un risultato non eccezionale degli alleati (in particolare, una flessione della Lega che portasse alla guida del Carroccio un esponente gradito alla Meloni). Segue il Pd, che da un lato deve guardarsi da una non impossibile ma poco probabile rimonta del M5s (il presupposto per sopravvivere è restare il primo partito dell'opposizione) ma dall'altro deve puntare a superare il 19% delle politiche. Alle europee del 2019 arrivò un 22,7% che oggi sarebbe considerato un grande successo (la disputa sul fatto che allora Calenda e Renzi erano ancora nel Pd sembra una scusa per abbassare le pretese del partito, anche se certamente una parte dell'attuale tesoretto centrista è fatto di voti ex Pd). Sta di fatto che il 19% non basterebbe alla Schlein per restare in sella; un 20 potrebbe essere parzialmente accettabile, mentre col 21% la segretaria potrebbe considerarsi abbastanza al sicuro; dal 22% in poi, sarebbe un mezzo trionfo. La Lega, invece, punta tutto su Vannacci, cioè su una personalità esterna al partito (e inviso a una fetta non indifferente di esponenti di primo piano, iscritti e semplici simpatizzanti del Carroccio) che dovrebbe "trainare" un soggetto politico in affanno. Oggi la Lega non è più il partito dominatore del Nord e neppure ha un po’ smarrito le vecchie parole d'ordine (Salvini vuole persino il ponte sullo stretto di Messina, che per alcuni leghisti è un'eresia). Il riferimento non può essere il 34,3% del '19, ma l'8,8% delle politiche e soprattutto il dato di Forza Italia. Se il partito di Tajani supera quello di Salvini, per il leader leghista la corsa al comando finisce. Lo stesso 8,8% è poco per dirsi soddisfatti. L'obiettivo è il 10%: oltre l'11 sarebbe un trionfo, la dimostrazione dell'irreversibilità della scelta di estrema destra nazional-populista compiuta da Salvini nell'ultimo decennio. Il voto alla Lega, dunque, sarà un referendum: se Salvini vincerà, si dirà addio a quel che resta (forse dirigenti compresi) dell'ala nostalgica del federalismo padano, ma se invece perderà vedremo il Carroccio tornare alle origini e stringere un diverso patto di governo con la Meloni, più simile a quello che la premier ha fatto col partito di Tajani. C'è poi, appunto, Forza Italia. Data per morta alla scomparsa di Berlusconi, si è ripresa non solo per merito della moderazione di Tajani (senza contare le scelte di politica estera, che hanno messo fine alla linea ambigua del Cavaliere sull'Ucraina e su Putin) ma anche perchè, con due partiti di destra vera al governo, l'unico spazio per un po' dei moderati che una volta stavano nel "grande centro" Dc è oggi proprio Forza Italia. Se FI (8,8% nel 2019, 8,1% alle politiche) tiene a quota 8, non c'è molto da gioire ma nemmeno da preoccuparsi; dal 9% in su è un successo, raddoppiato se supera la Lega. Andando a sinistra, c'è l'alleanza rosso-verde AVS, che alle europee (Europa verde 2,3%, La sinistra 1,8%) aveva complessivamente il 4,1% ma - correndo divisa - non ottenne seggi, mentre alle politiche ha riscosso il 3,6% (la soglia per il Parlamento nazionale è del 3%). L'obiettivo è superare il 4, possibilmente arrivando senza patemi al 5%. La concorrenza di liste minori pacifiste può creare qualche problema, però. Lo stesso discorso vale per il M5s, che inoltre ha due precedenti poco brillanti alle europee: nel 2014 (21,1%) perse circa il 4% rispetto al 25,6% delle politiche, mentre nel 2019 scese dal 32,7% al 17,1%. Stavolta si parte dal 17,1% delle europee '19 e dal 15,4% delle politiche '22. Conte punta ad agganciare il Pd intorno al 17-18% e comunque ad avere almeno il risultato delle scorse elezioni per l'Europarlamento; se resta al 14-15%, perde (anche se è difficile che in un partito ormai personale i suoi lo mettano in discussione), ma se supera il 17,5-18%, mette a segno un bel colpo, che raddoppia (come nel caso della sfida FI-Lega) se supera il Pd. Infine, ci sono le due liste centriste. L'unico riferimento del 2019 è rappresentato dal 3,1% di Più Europa, ma alle politiche ci sono il 2,8% di Più Europa e il 7,8% di Azione-Italia viva. In totale, il 10,6% che, in teoria, anche se spartito fra due liste concorrenti potrebbe far superare ad entrambe l'asticella del 4%. Ma in politica gli assemblaggi sono difficili: nel 1984 Pri e Pli persero voti (nel 1989, uniti anche ai radicali, andarono malissimo). C'è poi un elemento da valutare: non tanto l'affluenza, che forse potrebbe essere sui livelli ormai consolidati, quanto invece la volatilità rispetto alle politiche: più sarà bassa, più avremo il consolidamento del sistema dei partiti (una specie di Terza repubblica, dopo un decennio di grande instabilità).