Essere liberaldemocratici in Italia
Il dibattito su un possibile polo di "centro" va analizzato sotto due aspetti. Se si considera come centro la riunione di varie anime - dai residui di Forza Italia a Italia viva, da Azione a Più Europa - col solo scopo di fare da pivot per entrare in tutte le maggioranze possibili, è meglio non parlarne. Le operazioni di potere e i "cartelli" non portano fortuna a chi li fa e non sono positivi, in generale, per il sistema politico, senza contare che le ambizioni di tanti singoli sono tali da non assicurare alcun respiro a questo genere di iniziative. Se invece alla base c'è una comunanza culturale prima che politica - e qui va ben distinta la tradizione laica, liberal democratica e radicale da quella dei cattolici di sinistra, che sono cose diverse - allora un discorso può avere un significato. Certo, non basta aggregare forze vicine e con tratti programmatici e culturali comuni o almeno affini, come accadde persino nel 1984 alla Federazione laica Pri-Pli alle europee e nel 1989 alla lista Pri-Pli-Radicali (sempre europee: allora i radicali dispersero le proprie forze fra più liste, moltiplicando così gli eletti). Quando però, come in quei casi, si pensa che iniziative elettorali possano essere l'embrione di un progetto culturale e politico comune più ampio e articolato, non deve essere un insuccesso nelle urne a far crollare tutto. Se, infine, si riconosce che nel Paese c'è sempre stato (nascosto e costretto a stare senza i suoi simboli e quasi senza le sue idee, in un polo o in un altro nella Seconda Repubblica) un elettorato repubblicano, liberale (sul serio, non come quello del finto liberalismo berlusconiano, che era una parodia) e radicale, che guardi ai diritti civili meglio di come fa la Schlein col Pd (che forse dovrebbe occuparsi anche di altro, visto che sta a sinistra) bisogna porsi il problema di come dare una rappresentanza politica a quell'8% di "orfani" di Pri, Pli e Pr. La soluzione non è mettere insieme acqua e olio, come si è visto alle politiche col sedicente Terzo polo di Italia viva e Azione (che, per fortuna, è venuto meno). In quella occasione, però, si è visto che lo spazio per un'area liberaldemocratica c'è: se al 7,8% del TP togliamo un 2,5-3% di Renzi e aggiungiamo il 2,8% di Più Europa abbiamo un 7,5-8% che è molto simile a quello che repubblicani, liberali e radicali prendevano negli anni '79-'92: politiche 1979, 8,4%; europee 1979, 10,0%; politiche 1983, 10,1%; europee 1984, 9,5%; politiche 1987, 8,4%; europee 1989, 4,4% (che diventa 5,6% con i radicali antiproibizionisti e magari 7% con una quota dei verdi arcobaleno ai quali parteciparono anche radicali come Rutelli); politiche 1992, 8,5% (Pri, Pli, Lista Pannella). Quindi, le "truppe" ci sarebbero; ma dov'è l'elaborazione culturale, a parte qualche atto di buona volontà dei radicali? Bastano la Bonino e Calenda, con le loro personalità, a ricreare questa casa dei veri liberaldemocratici (o meglio, a ridare loro la giusta rappresentanza e la cornice ideologica)? Forse la classe dirigente è ancora un po' distante da quella degli anni Ottanta (non la Bonino, che per fortuna è sempre la stessa, ma Calenda che talvolta si concede un po’ troppo alla polemica sui social); del resto, se in generale la classe dirigente del Paese è molto scaduta sul piano culturale e politico, non si può che dire altrettanto dell'elettorato (ormai irretito dai social e dall'Italia costruita negli anni '80 e '90 dalle tv di Berlusconi che ha precipitato nell'abisso della "sottocultura di pronta beva" decine di milioni di persone). Non riavremo più uno Spadolini, un La Malfa, un Pannella, uno Zanone, ma esiste ancora, da qualche parte, una fetta di italiani di cultura liberaldemocratica che rifiuta la massificazione, il populismo e il leaderismo. A queste persone non si deve soltanto ridare uno spazio politico, una magione adatta, ma restituire una dignità culturale infangata da anni nei quali il liberalismo è diventata una coperta per nascondere ben altri disegni politici e ben altri ideali e interessi. Un "luogo del buongoverno" che però non deve divenire il centro geografico indispensabile perché destra o sinistra "conquistino il potere" (si va al governo, non al potere, sempre con la valigia pronta, diceva Spadolini) ma un polo di aggregazione anche per le riviste (le poche che resistono e altre che potrebbero nascere) che faccia rivivere la stagione del "Mondo" non in nome di un inutile ritorno al passato, bensì per riscoprire e adattare ai tempi - rifuggendo qualsiasi tipo di leaderismo e personalismo contemporaneo - i valori soffocati dal bipolarismo greve di questi decenni. I punti dai quali ripartire sono le esperienze del Risorgimento, della Resistenza, dell’antifascismo; il contribuito liberaldemocratico alla stesura della Costituzione e alla ricostruzione; l’esperienza del primo centrosinistra; la dialettica fra liberalismo, democrazia e socialismo e fra liberalismo e liberismo (fra l’ottica crociana e quella einaudiana); l’europeismo e l’atlantismo; il rigore connesso alla necessità di incentivare e governare lo sviluppo (in particolare riscattando le regioni più arretrate, non condannandole ad un federalismo irresponsabile ed egoista); la sacralità delle istituzioni e dei comportamenti di chi ricopre ogni incarico pubblico, con disciplina e onore; l’attenzione ai doveri dell’uomo, mentre si promuovono i diritti; la lotta ai monopoli e agli oligopoli (anche nel settore dell’informazione); la primazia da conferire all’educazione dei giovani, che per i meritevoli deve essere completamente gratuita fino al compimento del massimo grado d’istruzione; la scuola e la famiglia, inoltre, devono contribuire a creare nuovi cittadini che rispettino, conoscano e onorino la Costituzione e leggi; la necessità che la competizione sociale si svolga in un clima libero da condizionamenti (di Stato, ma anche di provenienza familiare); l’uguaglianza delle persone davanti alla legge, unita ad una politica efficace contro la criminalità (dunque, in favore delle popolazioni oppresse del Mezzogiorno, ma anche per purificare l’economia del Nord da infiltrazioni che talvolta rendono vano il libero mercato); la concezione della politica come servizio al Paese, che non si improvvisa e non può mai essere disgiunta da un’adeguata preparazione culturale e professionale; l’uso delle risorse pubbliche (con giudizio e intelligenza) non per beneficiare le categorie “amiche” ma per correggere disfunzioni sociali ed economiche. Da qualche parte c’è un’”altra Italia” che aspetta di rinascere.
di Francesco Provinciali *
di Luca Tentoni