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Né spallata, né stabilizzazione
E’ sicuro che la spallata preconizzata da Salvini non c’è stata: è la seconda o la terza volta che il Capitano si fa travolgere dal suo entusiasmo. Se ne deve dedurre che una volta di più registriamo una stabilizzazione del sistema, che Conte e il suo governo hanno davanti mesi tranquilli? E’ possibile, ma non ne saremmo così certi.
I risultati della tornata elettorale del 20-21 settembre non si prestano ad una lettura in bianco e nero: tizio ha vinto, caio ha perso. Sono piuttosto un ennesimo passo in direzione della ridefinizione del nostro sistema politico e non sappiamo ancora dove realmente andremo a finire.
Partiamo pure dai risultati del referendum costituzionale: il sostanziale 70 a 30 per il sì non segna esattamente il trionfo dei Cinque Stelle. E’ semplicemente la registrazione di un certo distacco del paese dalla questione che riguarda i meccanismi di rappresentanza. C’è una larga sfiducia che il parlamento sia un baluardo della volontà di partecipazione dei cittadini, tanto è vero che quasi la metà degli elettori non si è neppure presa la briga di andare a votare e che la riduzione dei parlamentari è stata approvata sull’onda della tesi che un bel taglio nel numero dei parlamentari non avrebbe cambiato nulla leggi tutto
L'eterna protagonista è la mobilità elettorale
Non è difficile prevedere che nel voto di domani e lunedì la mobilità elettorale possa risultare elevata. Rispetto al 2015 molte cose sono cambiate, così come rispetto alle politiche del 2018 e a quelle del 2019. Perciò, è forse opportuno, nell'attesa dei risultati, riflettere su quella che da almeno sette anni è diventata una costante della nostra dinamica politico-elettorale: lo spostamento di consensi verso altri partiti e verso (e dal) non voto. Venute meno le appartenenze ideologiche di un tempo, affievoliti persino certi legami apparentemente indissolubili fra territorio e voto (il caso dell'Umbria passata dal centrosinistra al centrodestra alle scorse regionali è emblematico), si è visto che anche la "Repubblica delle leadership" è ormai in crisi. Dal 2012 in poi Monti, Bossi, Grillo, Renzi, Di Maio, Berlusconi hanno patito sconfitte elettorali tanto eclatanti quanto eccezionale era stata l'ascesa del consenso alle singole personalità. Un ruolo importante, in tutto questo massiccio disincanto - una sorta di definitiva "laicizzazione" del voto - è stato svolto dalla crisi economica di dieci anni fa, che ha messo in moto - grazie anche ad un'efficacissima campagna contro la "Casta" - un processo di destrutturazione dei poli tradizionali (che non interscambiavano voti fra loro, salvo quote marginali). Lo "scongelamento" di centrodestra e centrosinistra ha permesso il deflusso verso il M5s - prima leggi tutto
Ultimi fuochi sul referendum
La questione referendaria continua a premere sul futuro del governo. Quella che sembrava una passeggiata verso una plebiscitaria vittoria del sì, si sta rivelando un sentiero tortuoso che non si sa dove sfocerà, perché il no è in rimonta costante. Decisivo sarà probabilmente, oltre al numero di elettori che si recheranno ai seggi, l’orientamento degli indecisi, che non sono pochi. In effetti anche per noi è difficile scegliere fra la padella e la brace: la padella del sì che emana il profumo poco gradevole dell’olio bruciato del populismo grillino (che non demorde: vedi l’annuncio di passare come punto successivo al taglio dello stipendio dei parlamentari); la brace del no, piena del fumo confuso di un conservatorismo che si veste ogni volta da difensore della Costituzione (che è già cambiata rispetto a quel che sostengono loro).
Sembrava che il PD si fosse finalmente deciso a prendere l’iniziativa necessaria a motivare un sì da riformisti e non da populisti, varando un progetto di riforma costituzionale articolato. Purtroppo, almeno fino al momento in cui scriviamo, disponiamo solo di un comunicato stampa che riassume il lavoro dei tre personaggi (autorevoli) che hanno predisposto la bozza: i parlamentari Ceccanti e Parrini nonché l’ex presidente Violante. leggi tutto
Appunti sulle elezioni regionali
Guardando i dati retrospettivi del voto nelle sei regioni a statuto ordinario dove il 20 e il 21 settembre si rinnoveranno i consigli e si eleggeranno i presidenti di giunta, si nota come, nel complesso, il centrodestra - o meglio la destra più Forza Italia - abbia costantemente guadagnato voti, dai 3 milioni del 2015 ai 4,2 delle politiche 2018 e ai 4,7 circa delle scorse europee (2019). Questo crescendo ha infranto un equilibrio fra due poli (centrosinistra e centrodestra) che aveva caratterizzato le elezioni del 2015 (39,3% a centrosinistra e sinistra contro il 37,3% a FdI, Lega e FI, più alleati minori), permettendo alla rinnovata Cdl di affiancare il M5s nel 2018 (35,3% contro 35,8% dei voti) e poi di allungare il passo, arrivando al 48,4% del 2019. In questo panorama si nota, da un lato, il progressivo indebolimento di Forza Italia (dal 14% del 2018 all'8,7% del 2019), il rafforzamento costante di Fratelli d'Italia (2015: 3,9%; 2018, 4%; 2019: 6,4%) e soprattutto della Lega (dal 9,3% del 2015 al 33,1% del 2019, passando per il 15,8% del 2018). Il M5s, invece, pare subire una sorta di legge del pendolo: va bene alle politiche e male alle amministrative o alle elezioni di secondo ordine come le europee (era già accaduto, in modo meno eclatante, nel 2014). I pentastellati hanno avuto 1,276 milioni di voti alle regionali del 2015, per salire ai 4,267 delle politiche e riscendere leggi tutto
Il problema della seconda Camera
Finalmente Nicola Zingaretti si è accorto, con molta cautela, che il vero nodo che si potrà porre dopo una eventuale conferma della riduzione dei parlamentari è la questione del Senato. La decisione presa a cuor leggero di farne del tutto la fotocopia della Camera dei deputati per la verità non passa dalla riforma grillina, ma da quella, costituzionalmente indecente, dell’on. Fornaro (di LeU) di equiparare i criteri dell’elettorato attivo e passivo fra le due Camere ed abolire il vincolo delle circoscrizioni regionali per il Senato. Sta di fatto che così il Senato diventerebbe ancor più un doppione senza significato, e, come ha notato Enzo Cheli (uno dei migliori costituzionalisti italiani ed ex giudice della Consulta), si scivolerebbe inesorabilmente verso il monocameralismo.
Ma sarebbe questa una buona soluzione, anche lasciando perdere che così si tradirebbe quanto deciso dai Costituenti che respinsero espressamente una scelta per il monocameralismo che allora il PCI sosteneva in prima battuta? Crediamo che la questione meriti qualche considerazione, tanto più che recentemente il segretario del PD Zingaretti, accogliendo un buon suggerimento di Violante, si è pronunciato per avviare un processo di ripensamento su come rendere il Senato una Camera che abbia un contenuto e un significato.
Per capire la natura leggi tutto
Il peso delle regionali sul referendum
Il 20 e il 21 settembre, l'esito del referendum costituzionale potrebbe essere deciso nelle sette regioni nelle quali si rinnovano i Consigli regionali: lo scopo dell'election day, infatti, è quello di mobilitare gli elettori, che in questo caso (dove si vota per le amministrative) andranno alle urne anche indipendentemente dal quesito sulla riforma che "taglia i seggi" di Camera e Senato. Strutturalmente, le regioni Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania, Puglia, Val d'Aosta rappresentano il 36% dell'intero elettorato italiano, quindi pesano poco più di un terzo del totale. Ma stavolta, se l'affluenza alle regionali fosse intorno al 52-55% come la scorsa volta e alle europee (pur senza salire al 73% delle politiche) i votanti sicuri per il referendum (cioè coloro i quali riceverebbero la scheda, oltre a quella per le amministrative) sarebbero fra i 9 e i 10 milioni, pari ad un'affluenza totale già acquisita fra il 18 e il 19% (solo Italia: 20-21%). Nelle altre regioni e all'estero voterebbero 33 milioni di aventi diritto: se l'affluenza nelle zone dove si va al voto per le sole comunali o (nella gran parte d'Italia) solo per il referendum fosse del 10 o del 15% (cioè bassissima), il dato totale nazionale si attesterebbe fra il 27-28% e il 31-32%. In sintesi, persino di fronte ad un fiasco nelle zone leggi tutto
Adesso si comincia a ballare ….
Col passare dei giorni la situazione politica torna a surriscaldarsi. Non che si fosse mai veramente raffreddata, ma era sembrata rimanere nell’ambito della cosiddetta pretattica politica. alla scena pubblica non trovava approvazioni né sul fronte politico, né su quello degli osservatori.
Le questioni sul tappeto sono tante, ma quella che, almeno per ora, sembra infiammarsi di più riguarda il referendum costituzionale. Come si è già avuto modo di osservare era un tema che la politica aveva preso sottogamba, convinta che la battaglia fosse decisa a priori dalla diffusione dell’antipolitica. Progressivamente questa convinzione ha cominciato a vacillare e non solo perché un numero notevole di “opinion maker” sulla stampa e in TV si stanno pronunciando per la scelta di votare no il 20-21 settembre, ma perché anche nel corpo elettorale più in generale qualcuno vede movimenti che non vanno nella direzione prevista.
La scelta di Berlusconi di schierarsi a favore del no è significativa, perché l’uomo non è di quelli che si buttano alla leggera a far operazioni di pura testimonianza. Probabilmente anche dalle parte di FI si è ragionato su quanto fosse sensato regalare ai Cinque Stelle una vittoria che avrebbe consentito loro di mettere in ombra quella che potrebbe essere una loro mezza debacle leggi tutto
Se il M5s "decide di non decidere"
Se guardassimo soltanto i dati delle ultime elezioni europee (2019), il verdetto delle regionali 2020 sarebbe tutto a favore del centrodestra, persino (di stretta misura) in Toscana. Come l'esperienza insegna, invece, non c'è nulla di più lontano del voto europeo di quello regionale e amministrativo: non c'è solo una differenza di prossimità fra l'elettore, l'eletto e l'istituzione, ma - come costante negli ultimi anni - c'è soprattutto un'altissima volatilità dei consensi. In più, la strutturale debolezza del M5s alle regionali (dove raccoglie fra il 40 e il 50% in percentuale rispetto al dato politico) rende la competizione di settembre molto diversa da quelle nazionali (politiche ed europee) che l'hanno preceduta. Ipotizzare che i Cinquestelle abbiano il 33,9% in Campania o il 26,3% in Puglia (europee 2019) è a dir poco temerario. Come avviene tradizionalmente, quei voti andranno in varie direzioni: una parte alla lista del Movimento, una verso l'astensione, una (con o senza l'utilizzo del voto disgiunto) ai candidati presidenti di giunta del centrosinistra e una - minuscola - verso la destra. Poiché in Puglia e nelle Marche (un pochino, forse, anche in Toscana: non si sa mai) lo spostamento di consensi pentastellati sui candidati del centrosinistra può permettere al Pd di confermare la guida delle regioni nelle quali governa, puntellando così leggi tutto
Una ripartenza più che complicata
Con l’arrivo di settembre ricomincia la vita normale: basta guardare alla programmazione televisiva che riprende con le trasmissioni consuete. Così è anche per la politica, ma quest’anno tutto è più complicato del solito. C’è l’incognita sull’andamento dell’epidemia che ha ripreso ad espandersi, quella sugli assetti dell’economia (solo Gualtieri vede rosa con riprese del PIL da impennata), ma soprattutto quella dell’esito della tornata delle amministrative e del referendum costituzionale del 20-21 settembre.
A questi impegnativi appuntamenti non si arriva molto bene. Sull’epidemia ci viene detto che adesso siamo preparati, ma non è chiarissimo a cosa: basta guardare alla confusione sulla ripresa dell’attività scolastica. Quanto all’economia siamo sballottati da una previsione pessimistica ad una catastrofica e anche qui di condivisione delle linee di intervento non è che si veda gran che: governo, associazioni dei datori di lavoro, sindacati non sembra trovino una solida intesa e sono ciascuno arroccati su posizioni corporative.
Quanto al versante politico la situazione è a dir poco confusa. Le opposizioni di centrodestra sono al momento coalizzate nel tentativo di mostrare coi dati delle urne di settembre che ormai nel paese la maggioranza dei consensi è loro. Naturalmente il campione è molto esteso, ma non totale e in molti casi nelle elezioni comunali non sarà chiarissimo vedere leggi tutto
Una simulazione sulla Camera dei deputati "ritagliata"
L'esito del referendum elettorale potrebbe cambiare notevolmente la rappresentanza in Parlamento delle singole forze politiche, ben al di là delle attuali variazioni di consenso registrate dai sondaggi. Il mutamento non avverrebbe solo in proporzione ai voti, ma soprattutto in termini reali, cioè di posti disponibili per ciascun gruppo parlamentare. Un conto è avere 201 seggi e ritrovarsi ad averne 80 (cosa che avverrebbe al M5s se vincessero i "no" e se non avesse luogo alcuna riforma del sistema elettorale), un altro è passare a 50-51 deputati (al massimo 70, con un meccanismo proporzionale per tutti i seggi in palio, quindi simile alla proposta sostenuta da Pd e pentastellati). Il problema numerico può diventare politico, come nel caso dei Cinquestelle, ma anche di Forza Italia (che sta subendo qualche defezione in Senato) e di Italia viva. Questi tre gruppi, oggi, hanno rispettivamente 201, 95 e 31 deputati, per un totale di 326 (addirittura la maggioranza assoluta, a Montecitorio), ma, secondo una nostra simulazione condotta partendo dai dati di un sondaggio Euromedia Research sulla Stampa del 22 luglio scorso, passerebbero ad avere rispettivamente (col Rosatellum e il "sì" alla riforma costituzionale) 51, 30 e 13 seggi (totale 94 su 400) oppure 70, 27 e 15 (con un sistema proporzionale e soglia al 3%; in totale, dunque, 112 posti). La possibilità che il M5s leggi tutto