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Un governo senza coesione
Arriva il primo passo per la legge di bilancio, cioè il Documento di Economia e Finanza (DEF) che è una specie di sommario delle buone intenzioni del governo, poi si vedrà nella legge vera e propria come verrà dettagliato. Vale dunque la pena di discuterne a fondo? Per certi versi no, ma per un altro decisamente sì: siccome è un documento di prospettiva vale la pena di chiedersi se la prospettiva c’è.
Un’analisi impietosa del contesto spinge ad esprimere forti dubbi al proposito e per due ragioni. La prima è che il documento è stato scritto di fatto sotto dettatura delle attese indotte nella pubblica opinione da una lunga estate di agitazioni. Evitare che scattassero le clausole di aumento dell’Iva era il mantra agitato da tutti, ma soprattutto da coloro che hanno spinto per il varo della nuova maggioranza. Alla fine si è rimasti intrappolati da quei discorsi, impedendo che si potesse anche solo discutere seriamente di una rimodulazione delle aliquote Iva. Ci si è aggiunta un po’ di retorica sull’economia verde e roba simile.
Non c’è da meravigliarsi che sotto l’attacco delle opposizioni i partiti di maggioranza avessero difficoltà sul tema del blocco degli aumenti Iva, ma soprattutto i Cinque Stelle, che dovevano giustificare il leggi tutto
Il "caso Umbria"
La convergenza di Pd e M5S su un candidato alla presidenza della regione Umbria, per le elezioni del 27 ottobre prossimo, rappresenta un elemento di novità nel panorama politico nazionale. Per la prima volta, sia pure con le cautele che i partiti della nuova coalizione cercano di utilizzare per definire l'intesa umbra (civica, ma in realtà politica) i Cinquestelle non si presentano da soli alle regionali, dopo aver perso tutte le consultazioni di questo tipo dal 2010 ad oggi. È, come quella del 2018, una svolta. Se prima non ci si alleava con nessuno per dar vita ad un governo (nel 2013 la proposta del Pd fu respinta in modo molto brusco, durante l'incontro trasmesso in streaming), in questa legislatura i pentastellati hanno prima creato una maggioranza con la Lega (col pretesto, però, del "contratto", che da un lato serviva a delimitare le aree e i provvedimenti di rilievo per Carroccio e M5S e dall'altro giustificava l'esistenza di un'alleanza che veniva presentata come basata sulle cose da fare e non come una coalizione classica), poi un tripartito con Pd e Leu (senza più contratti, con i ministri divisi secondo criteri ben precisi; insomma, un governo come tanti altri). L'ultimo elemento di diversità, quello dell'ostinazione a leggi tutto
Torna la questione regionale
Il tema del seguito da dare a quanto richiesto da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna in base a quanto previsto dalla riforma costituzionale che ha introdotto le cosiddette autonomie differenziate è stato giustamente e doverosamente ripreso dal nuovo governo Conte. Nel precedente esecutivo esso era stato messo in capo ad una ministra della Lega, Erika Stefani, vicentina, che in una prima fase aveva operato in maniera accurata, per perdersi poi nel vortice delle polemiche interne alla maggioranza gialloverde anche per il crescere delle pretese dei governatori di Lombardia e Veneto, sicché si era bloccato tutto. Ora la faccenda è nelle mani del nuovo ministro, Francesco Boccia, pugliese, che sembra intenzionato a riprendere in mano la patata bollente.
Ovviamente la polemica politica tende a mettere in scena un cambio di passo fra una ministra di un Nordest con inclinazioni da republichetta autonoma e un ministro del Sud preoccupato di difendere il Meridione dallo svuotamento di risorse che si dice deriverebbe da una promozione delle istanze autonomiste dei cosiddetti “ricchi”.
Messa così, la faccenda diventa una farsa, mentre è urgente il problema di giungere ad un equilibrio nelle scelte per il regionalismo che è stata fatta, un po’ alla carlona, da passati governi tanto di destra quanto di sinistra. leggi tutto
Il M5s di governo fra l'incudine e il martello
La prova del secondo governo Conte può essere per Di Maio e il M5s più difficile rispetto a quella della maggioranza gialloverde. Per comprendere cosa sia accaduto e cosa possa accadere al bacino elettorale dei Cinquestelle bisogna partire dal risultato del 2018, senza dimenticare quello del 2013 e, ancor prima, senza trascurare il periodo in cui, fra il 2008 e il 2012, si andò formando il nucleo originario e forte del consenso al Movimento. Inizialmente il M5s catturò i voti degli scontenti di sinistra, degli astenuti, di chi non aveva creduto nella scommessa (perduta) della Sinistra Arcobaleno del 2008 e nell'esperienza dell'ultimo governo Prodi (2006-2008). A quel gruppo si aggiunse quello dei giustizialisti rimasti improvvisamente orfani dell'Idv dipietrista (che aveva raggiunto alle europee del 2009 l'8% dei voti, per poi dissolversi rapidamente alla fine del 2012). Con la crisi del 2011-2012 e il crollo del centrodestra arrivarono anche i voti dei delusi del Pdl e di una Lega allora in difficoltà. In questo modo, il M5s si presentò alle politiche del 2013 come un partito "pigliatutto", non di destra e neppure di sinistra, pronto ad accogliere - in nome della diversità rispetto alle forze e alle politiche tradizionali - gli elettori delusi e gli astenuti. Il successo di quella consultazione fu ripetuto leggi tutto
Sciame sismico
Come è noto, dopo i terremoti arrivano gli sciami sismici: è il susseguirsi, che può essere anche piuttosto lungo come durata, delle cosiddette scosse di assestamento. È quel che sta accadendo nella politica italiana. Dopo il terremoto del marzo 2018 che ha visto crollare la tenuta dei partiti cardine delle seconda repubblica, abbiamo assistito a continue scosse di assestamento: il governo gialloverde, le elezioni europee, una tornata di amministrative che hanno ripetuto gli scossoni, poi le europee, poi la rottura di Salvini e la nascita di una nuova coalizione apparentemente poco immaginabile, il governo giallorosso, e infine (ma sarà davvero la fine?) la molto annunciata e poi messa improvvisamente in scena con un colpo di teatro uscita di Renzi dal PD.
Il tutto è nel segno di un riequilibrio o di una nuova dislocazione della geografia del territorio politico italiano. In parte, come sempre, si costruisce su macerie già evidenti (quelle del vecchio partito berlusconiano, ma anche dell’estrema sinistra), in parte presenta un panorama di edifici pericolanti che non si capisce bene se cadranno o verranno messi in sicurezza (il PD) e di nuovi edifici o edifici restaurati alla bisogna che non si sa se saranno gli elementi chiave del nuovo skyline (M5S, Lega). leggi tutto
Arcobaleno parlamentare
La soluzione della crisi di governo ha dimostrato che, dopo la fine degli storici steccati della Prima Repubblica, sono venuti meno anche quelli (fra coalizioni e famiglie politiche) della Seconda. Era già accaduto lo scorso anno, col patto fra Lega e Cinquestelle: Salvini aveva abbandonato il centrodestra (un atto che fino a pochi anni prima si sarebbe definito "ribaltone", anche se c'era il precedente fresco del 2013-'14, con il Pdl entrato nel governo Letta - sia pure in nome dell'interesse nazionale - lasciando all'opposizione gli alleati) per dar vita ad una combinazione parlamentare col M5s. Sottolineo "parlamentare", perché è proprio nell'attuale legislatura che - per la prima volta nella storia - il principio del governo formato tenendo conto dei numeri alle Camere e non degli steccati ideologici si è pienamente affermato, sublimando - in certo modo, senza accezioni positive e negative - il regime parlamentare. Siamo andati persino oltre la Prima Repubblica: oggi chiunque può allearsi con altri partiti, indipendentemente dalla loro natura ideologica, purché si arrivi a dar vita ad una maggioranza. Come è stato nel 2018, fra due forze che fino al giorno prima si insultavano, così è stato nel 2019, fra partiti che oggi non sono ancora amici (forse non lo saranno mai) ma che si sono contrapposti fino a leggi tutto
Ancora una riforma della legge elettorale
La scelta sembra essere quella classica fra la padella e la brace: ci riferiamo alla ennesima riforma della legge elettorale che il nuovo governo Conte programma per rendere accettabile il taglio del numero dei parlamentari imposto dai Cinque Stelle. Come si sa quella è una riforma costituzionale a cui manca solo un ultimo passaggio parlamentare per essere approvata. È figlia del populismo becero che considera i parlamentari dei profittatori che occupano poltrone senza averne titolo, sicché meno sono meglio è: si risparmia! Nella passata coalizione la Lega non ebbe problemi a sostenerla per varie ragioni: da quella furbesca che era consapevole che tanto poi ci sarebbe stato un referendum confermativo con buone probabilità che fosse annullata, a quella più politica secondo cui il taglio dei parlamentari a legge elettorale invariata conteneva una svolta implicita verso il sistema maggioritario, il che poteva dare a Salvini quella vittoria secca a cui anelava.
Il PD si era sempre detto contrario a pasticciate torsioni maggioritarie ed aveva votato contro la riforma grillina, ma per concludere il patto di coalizione con M5S ha dovuto accettare che il taglio del numero dei parlamentari rientrasse nel programma di governo ottenendo solo che fosse accompagnato da una revisione della legge elettorale vigente. leggi tutto
Verso l'ennesima riforma elettorale
Sebbene il clima sia insolitamente rassicurante, il secondo governo Conte si prepara ad affrontare la prova del doppio voto di fiducia: alla Camera non ci saranno problemi, mentre al Senato non si possono escludere sorprese (forse non per l'esito, verosimilmente favorevole all'Esecutivo, ma per il numero dei voti a sostegno). Se il principale appuntamento dei prossimi mesi è quello con la legge di bilancio, va però segnalato che la riforma elettorale (legata alla riduzione dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200, prevista da un disegno di legge costituzionale che sta per essere approvato definitivamente per poi - forse - essere sottoposto a referendum popolare) potrebbe rappresentare un passaggio non facile e neppure indolore. Se lo scopo del nuovo sistema elettorale sarà quello di evitare che un soggetto politico (partito o coalizione: nello specifico, Lega-FdI) possa aggiudicarsi la maggioranza assoluta dei seggi in entrambi i rami del Parlamento pur avendo poco più del 40% dei voti, la semplice abolizione dei collegi uninominali e l'assegnazione di tutti i seggi con un metodo (proporzionale) del quoziente potrebbero non bastare. Nel 2018, i partiti che superarono lo sbarramento del 3% alla Camera furono: Lega (17,35%), FdI (4,35%), Forza Italia (14%), Pd (18,76%), M5S (32,68%), LeU (3,39%). In totale, dunque, le forze sotto il 3% ebbero il 9,47%. leggi tutto
Ma chi sa se sarà davvero una svolta …
Dunque Rousseau (nel senso della piattaforma di M5S) ha parlato ed ha dato il responso che ci si attendeva: 79,3% di voti per approvare la scelta dei gruppi dirigenti di varare una coalizione col PD diretta da Giuseppe Conte. La controllabilità tanto del numero di votanti (dicono: circa 80mila) quanto delle percentuali dei sì non esiste, perché tutto è gestito da una società privata (neppure dal MoVimento in quanto tale) che però si vanta di stare indicando al mondo la nuova via della democrazia digitale. Peraltro deve trattarsi di un popolo un po’ ondivago, visto che in un passato non molto lontano ha votato per l’accordo con Salvini e per il diniego dell’autorizzazione a procedere contro il leader della Lega: sarà mica perché allora i gruppi dirigenti desideravano quella pronuncia?
Comunque sia, ora con una certa arroganza Di Maio annuncia che parte un governo che presenta due caratteristiche: accoglie in pieno tutto quello che hanno proposto i Cinque Stelle e continua l’opera che questi hanno svolto nel governo precedente. Contraddittorio? No, perché, spiega il capo politico di M5S, non esistono cose di destra o di sinistra, ma solo cose giuste. Il discorso è qualunquistico, letteralmente perché ricorda il modo di ragionare del fondatore leggi tutto
Le crisi di governo nell’Italia Repubblicana (1946-2019) (*)
Dal primo luglio 1946 ad oggi, l'Italia ha avuto 66 crisi di governo, durate in media 33,88 giorni (contando anche quella in corso, con dati aggiornati al 31 agosto 2019, riprendendo uno studio pubblicato dall'autore di questo articolo prima nel 1989 sulla Voce Repubblicana e poi - con l'aggiunta di un testo di Guglielmo Negri - nel 1992, col titolo "L'instabilità governativa nell'Italia repubblicana"). In pratica, il Paese ha avuto un governo "in ordinaria amministrazione" per 2236 giorni (6 anni, un mese e due settimane: molto più di una legislatura, dunque). L'8,3% della nostra storia è trascorso fra consultazioni, incarichi esplorativi, elezioni anticipate, ricerca di nuovi assetti politici. I nostri governi hanno avuto una durata media di 404,18 giorni (dei quali 374,30 nella pienezza dei poteri), però la media non permette di distinguere fra Prima e Seconda Repubblica. In quest'ultima abbiamo avuto 15 governi contro i 51 della Prima, per complessivi 9264 giorni contro 17676 (durata media dei governi: 1946-1994, 346,59 giorni, 33,47 dei quali di crisi; 1994-2018, 617,60 giorni, 35,27 dei quali di ordinaria amministrazione). In parole povere, nella Seconda Repubblica abbiamo avuto governi molto più longevi (in media, 20 mesi e 8 giorni contro gli 11 mesi e 10 giorni della Prima Repubblica) ma crisi leggermente più lunghe. Non tutte le formule politiche degli ultimi ventiquattro anni, però, hanno avuto lo stesso "rendimento" sul piano della durata: leggi tutto