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17 aprile 2024
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La sinistra fra riformismo e radicalismo

Paolo Pombeni - 27.04.2022
Letta

Come in tutte le fasi di svolta storica, per il versante che occupa la sinistra dello spettro politico si pone il problema di scegliere fra riformismo e radicalismo massimalista (spesso utopista). Ci riferiamo alla tradizionale bipartizione dell’arco della rappresentanza politica fra un lato destro dove prevalgono le pulsioni alla conservazione e magari alla reazione contro l’evolvere dei tempi e un arco sinistro in cui invece si raccolgono coloro che considerano il cambiamento storico come una occasione per creare “progresso”. Detta così può sembrare schematica, e naturalmente in parte lo è, ma a dispetto di tutte le retoriche sul tramonto della distinzione fra destra e sinistra, quella divisione nelle grandi linee rimane, anche se è sempre meno vero che le forze tradizionali che presumono di detenere l’esclusiva per marcare questa bipartizione abbiano ancora titolo a farlo.

Se si osserva il campo politico attuale si vedono due tendenze opposte. Da un lato c’è una ricerca quasi disperata a tenere vivo quel bipolarismo, obbligando le forze presenti a schierarsi da una parte o dall’altra, ma con l’inevitabile problema di stabilire quale delle molte componenti che le compongono possa intestarsi il diritto a condizionare le altre dietro di sé. Sul versante opposto c’è una certa pulsione ad accettare una frammentazione continua, una guerriglia fra le diverse “ortodossie” che così si oppongono a qualsiasi seria composizione in un quadro unitario.

Sono fenomeni che oggi in Italia riguardano tanto la destra quanto la sinistra, come peraltro accade in tutte le democrazie costituzionali. In questa sede ci occuperemo però solo della sinistra, che è quella che ha il più serio problema di tensioni fra la componente riformista e quella radical-massimalista. E’ più sensato interpretare quanto accade in quest’ottica che indulgere alla stantia questione del rapporto tra “centro” e “sinistra”, perché se la mettiamo in quei termini non ci si capisce più molto in quanto riduciamo un problema di politica ad uno di pseudo-geografia parlamentare.

Il cosiddetto “campo largo” che tanto piace al segretario del PD Enrico Letta, il quale peraltro ha ereditato la questione dai suoi predecessori, è un pastrocchio inventato per comprensibili esigenze elettorali (la presenza di sistemi “maggioritari” che obbligano a coalizioni strumentali e senz’anima) che finisce però per tarpare le ali al riformismo a causa dell’esigenza di non rompere col massimalismo. Si pensa sia possibile sistemare tutto con la vecchia scelta del mettere insieme un programma minimo e un programma massimo, cioè collocando nel primo le cose che si possono fare con le riforme (ma sminuendole appunto come un “minimo”) e nel secondo quelle che si vorranno fare perché sono il meglio, ma senza dire né come, né quando (sarà la meta finale con la riconquista del paradiso terrestre).

Come si sa fu la scelta del socialismo italiano a cavallo fra Otto e Novecento e bisogna dire che non andò benissimo. Il problema è che le riforme sono faccende molto impegnative, richiedono coraggio, ma soprattutto pazienza e tenacia, tutte cose difficili da far accettare se si parte dal presupposto che questi che sono oggettivamente sforzi e sacrifici rilevanti siano alla fine fatti per raggiungere risultati “minimi”. Intanto si lascia campo libero ai massimalisti che reclamando non solo la purezza, ma la superiore validità delle loro utopie boicotteranno gli sforzi dei riformatori e faranno crescere le aspettative messianiche nei cittadini, specie quando questi siano angosciati rispetto a quel che li aspetta nel futuro.

Il PD oggi, ma soprattutto una gran parte del suo gruppo dirigente, è prigioniero di questo contesto. Da un lato è per tradizione un partito di governo (secondo alcuni più che altro lo era) e dunque avrebbe bisogno di riunire in una forte alleanza tutte le forze riformiste, a cominciare da quelle che o lo hanno lasciato o faticano ad accettarne la leadership perché vedono che non vuole rompere coi massimalisti. Dal lato opposto nel PD c’è un’altra tradizione che è quella del “niente avversari a sinistra”, del massimalismo come legittimazione per continuare a sentirsi il partito che marcia verso una nuova storia (oggi di rivoluzione non si usa più parlare), ma così è vittima del ricatto dei massimalisti più spregiudicati, perché ad essi ha devoluto la rappresentanza della “purezza” ideologica.

Per uscire da questo impasse il partito dovrebbe con forza schierarsi per un ritorno ad un sistema elettorale proporzionale, in modo che i riformisti che si collocano fuori di esso possano raccogliere il loro consenso e che i massimalisti siano costretti a giocare a carte scoperte. Per il PD sarebbe vantaggioso, in quanto potrebbe poi, sulla base dei risultati che escono dalle urne, essere il perno per costruire un programma di governo (oppure di opposizione che pesa) in cui di fatto si dovrebbe scegliere se sono i massimalisti a doversi sottoporre ai riformisti o viceversa. Il prevalere della prima opzione è scontato, perché col massimalismo non si governa, né si fa opposizione che costruisce, e infatti nei casi in cui i massimalisti siano davvero dominanti, nella prassi fanno poi politiche riformiste, magari infarcendole di slogan altisonanti, ma non per questo di diversa natura.

Una scelta di questo tipo richiederebbe al gruppo dirigente del PD un coraggio che oggi non vediamo, perché non c’è disponibilità a chiarire ai massimalisti che le loro prospettive non servono in questo complicatissimo frangente storico. Però se non lo fanno non si uscirà da una ambiguità che è un misto di timore reverenziale verso le presunte “purezze” portate avanti da quelli che predicano un mondo rinnovato e di consapevolezza che senza una seria politica di riforme, coi tempi, i modi e la paziente tenacia necessari, non si riesce a far progredire il mondo verso situazioni migliori.