Il rebus del centro
La discussione su cosa sia e che ruolo abbia “il centro” in una democrazia costituzionale basata sulla competizione elettorale è una storica questione nelle riflessioni politiche. Ci sono due versioni. Quando il sistema è tendenzialmente bipolare o addirittura bipartitico, allora si dice che vince chi riesce ad aggiungere ai voti della propria parte (destra o sinistra) i voti del centro, che come tale è dato per oscillante fra le due. In questo caso, almeno tendenzialmente il centro non si formalizzerebbe a costruire uno o più partiti ma si sposterebbe sull’uno e/o sull’altro campo. Quando invece si ha un sistema strutturalmente pluripartitico, il centro avrebbe una o più formazioni strutturate che competono con le altre in quanto rappresentanti di specifici segmenti sociali. In questi casi può anche succedere che una di queste forze assuma la leadership nel determinare la formazione di coalizioni vincenti, condizionando gli alleati, di destra o di sinistra a seconda dei casi, a moderarsi nelle loro pretese specifiche.
Questa è la rappresentazione idealizzata dei possibili quadri della vita politica, perché nella realtà in genere è tutto più sfumato o più confuso. Una avvertenza da richiamare è che c’è differenza fra un sistema in cui i partiti (molti) sono fortemente strutturati e radicati nella società e un altro in cui lo sono solo (pochi) in misura relativa. Nel primo caso, come fu per esempio negli anni d’oro della nostra prima repubblica, ciascuno, per così dire, si tirava dietro il suo elettorato che seguiva le indicazioni del partito tradizionale di riferimento e di quel che decidevano i suoi vertici. Nel secondo caso, come è nella situazione attuale, solo alcuni partiti hanno quel radicamento e lo hanno in misura limitata, mentre gli altri sono imprese costruite intorno a gruppi di dirigenti politici che non sono in grado di spostare il loro elettorato così come vorrebbero.
Qui inizia il primo problema della nostra politica nelle contingenze odierne. Ragionare su coalizioni che sommano sigle è più che un azzardo, proprio perché nessuna componente può garantire di imporre a tutti i propri (ipotetici) elettori le sue scelte. Ciò, per dire, rende piuttosto fantasiosi tutti quei discorsi che suggeriscono coalizioni che mettano insieme “gambe” di centro, sinistra ed estrema sinistra, o di destra, estrema, destra e moderate (con tutte le infinite varianti possibili). Danno vita solo a contratti di mutuo soccorso fra gruppi di politici professionali che mirano a dividersi quel che si può guadagnare da un risultato elettorale: maggiore ovviamente nel caso si vinca la posta, ma non disprezzabile per i propri gruppi dirigenti anche in caso contrario. In questi casi, è triste dirlo, si punta sempre sul fatto che l’elettorato si restringa a chi comunque si fa prendere dal gioco delle sigle: il resto si conta se ne stia a casa.
Se si deve invece prendere in considerazione il contesto di un elettorato mobile, il tipo di ragionamento che si impone dovrebbe essere un altro. Chi va al voto scegliendo almeno in qualche misura un orientamento circa le risposte che si aspetta di ricevere per i problemi concreti non guarda semplicemente alla forza politica che sceglierà nell’urna, ma anche al peso che questa può avere nel realizzare nel quadro della coalizione una buona politica. Detta in chiaro: difficilmente un elettore di centro può votare per un suo partito minoritario che in coalizione venga “mangiato” dalle demagogie e dagli estremismi dei suoi alleati. Ciò vale per le coalizioni di destra come per quelle di sinistra.
Ecco che allora la questione si ribalta sugli atteggiamenti e sui programmi dei partiti che possono essere leader nelle due coalizioni. Del resto è esattamente quel che avveniva nella stagione buona della prima repubblica nonostante allora il radicamento dei partiti fosse molto forte. La DC per poter fare l’apertura a sinistra (prima verso i socialisti, poi estendendosi alla solidarietà nazionale col PCI) doveva rimarcare la componente di sinistra che aveva al suo interno. I socialisti e poi i comunisti per far marciare quelle intese dovevano insistere sulla loro capacità di rispondere essi per primi alle domande che venivano da quello che per convenzione chiameremo il mondo del centro (basterebbe ricordare la loro politica consociativa nelle regioni che amministravano).
Attualmente siamo ben lontani in termini di visione politica da quei contesti. A destra il partito maggiore, FdI, oscilla continuamente fra politiche di conservatorismo moderato e pulsioni a lasciarsi andare allo sfoggio di misure “identitarie” per compiacere il suo elettorato populista condite con miserande occupazioni delle spoglie politiche. Non parliamo del PD che, pur nato sulla carta da una confluenza dei riformismi governativi ex PCI ed ex sinistra DC, è oggi un confuso soggetto incapace di sottrarsi alle sirene fallaci del neo giacobinismo suggerito da un po’ di signori della comunicazione e al massimo spinto a riconvertirsi sull’immagine del “partito contro”.
Naturalmente in questo quadro ci pare piuttosto ingenuo immaginarsi che si riorganizzi da sola e per magia quell’area del paese che vorrebbe coagularsi attorno ad una politica positiva che con realismo e gradualismo (che deve garantire di non essere la scusa per non far nulla) prendesse a mano il governo della nostra transizione. Senza aspettarsi il mitico leader carismatico che raccoglie le membra sparse, sarebbe necessaria una dinamica intellettuale che costruisca la consapevolezza di quel che è necessario e che marginalizzi l’orgia di demagogia e di utopismo che, per quanto stancamente, continua a tenerci prigionieri. Se quella dinamica arriverà, poi anche il quadro politico avrà una evoluzione positiva.