Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
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Aleppo e Mosul: Guerra Fredda e Proxy Wars

Numan Kurtulmuş

Giovedì 13 ottobre, il vice-Primo Ministro turco Numan Kurtulmuş ha dichiarato che le guerre per procura, o proxy wars, in Medio Oriente sono il segno del riemergere di un possibile scontro diretto tra le superpotenze della Guerra Fredda, cioè Stati Uniti d’America e l’odierna Russia. La guerra in Siria si sta trasformando in un conflitto regionale di più ampia portata, sempre a suo dire. Inoltre, alle tensioni relative alla sorte della città siriana di Aleppo si aggiungono ora quelle per Mosul in Iraq. Qui, da settimane il governo di Baghdad sta ammassando truppe dell’esercito regolare e delle milizie di “Mobilitazione popolare”, in larga parte sciite, in attesa dell’assalto finale alla roccaforte irachena dell’Organizzazione dello stato islamico (IS). Facendo eco alle monarchie del Golfo, il Premier turco Erdogan ha minacciato “fuoco e fiamme” se la città verrà occupata da truppe sciite e non da quelle sunnite, e intanto ha mobilitato l’esercito turco al confine con l’Iraq e alcune milizie irachene sunnite che sostiene da tempo. Il governo vacillante di Baghdad respinge le accuse al mittente e chiede il ritiro di alcuni contingenti turchi presenti nel nord dell’Iraq, ufficialmente a difesa delle comunità turcomanne. Per la precisione, queste ultime si sono divise tra il sostegno o meno alla stessa IS. Sempre nel campo “filo-occidentale” del Medio Oriente, da anni i dirigenti sauditi usano contro i rivali iraniani la stessa terminologia che a suo tempo utilizzavano contro l’Unione Sovietica e le forze comuniste o socialiste nel mondo arabo: delle “serpi” a cui tagliare la testa come unica soluzione.

Nel campo avversario, il 14 Ottobre, il Presidente siriano Bashar al Assad ha rilasciato una lunga intervista al quotidiano russo “Komsomolskaya Pravda” facendo anche lui riferimento al ritorno della Guerra Fredda tra USA e Russia, di cui la Siria è uno dei campi di battaglia. Nella stessa intervista, al Assad conferma come la Russia, assieme ad Iran e i libanesi di Hizb’allah siano gli alleati più stretti di Damasco, così come la conquista di Aleppo sia ormai questione di tempo. Da questa città partiranno poi nuove offensive contro il resto delle formazioni ribelli (per lui, sono tutti “terroristi”), in particolare nella provincia di Idlib, a ridosso del confine con la Turchia. Mesi addietro, lo stesso Bashar al-Assad aveva definito Aleppo come la “Stalingrado” della Siria, cioè il campo di battaglia da cui dipendono le sorti del conflitto in Siria. Era chiaro l’appello alla memoria collettiva della Russia, tanto come nazione aggredita quanto come riscatto di una superpotenza.

 

La storia non si ripete, perché le società non sono mai uguali a sé stesse ma in continua trasformazione come le rispettive relazioni internazionali. Oggi, non siamo in presenza di una nuova Guerra Fredda tra USA e Russia perché, soprattutto da parte di Mosca, non vi è alcuna ideologia universale da contrapporre all’impero della “libertà” di Washington, come fu il caso nel XX secolo. Si può anche dubitare che gli USA siano oggi ancora portatori di un “Fair Deal” di sviluppo globale. La peculiarità della Guerra Fredda risiedeva nella combinazione di una lotta per le idee di sviluppo, organizzazione e governo delle società con lo scontro più classicamente geopolitico tra due grandi potenze militari ed industriali. Al massimo si può ritenere che oggi rimane viva la componente “geopolitica”, di “politica di potenza”, nelle tensioni tra Washington, i suoi alleati della Nato e Mosca. Ed è bene ricordare che durante la Guerra Fredda le due superpotenze si scontrarono nei campi di battaglia dei Paesi postcoloniali senza però mai voler giungere ad uno scontro diretto, né tantomeno tradurre nel cuore dell’Europa un conflitto originato nell’area del Mediterraneo o del Medio Oriente. Gli interventi delle due superpotenze avvennero di norma secondo modalità molto simili alle odierne “guerre ibride”: potremmo allora forse dire che la prassi delle superpotenze nel mondo postcoloniale ritorna nel teatro europeo prima nelle guerre della ex-Jugoslavia, poi nel Caucaso e di recente in Ucraina. Erano “ibride” anche per evitare che lo scontro convenzionale si trasformasse in guerra totale.

 

Dunque, vi sono ragioni di fondo per smentire i sostenitori di una nuova Guerra Fredda. Tuttavia, la sistematicità dei riferimenti ad essa raccontano tanto della “memoria” di questo conflitto quanto di come la Guerra Fredda fosse concepita e praticata dai dirigenti politici del Medio Oriente. Per questi, la Guerra Fredda era un conflitto che divideva i Paesi industriali situati in Europa e nel Nord del Mondo e tale divisione poteva, e doveva, essere sfruttata per consolidare sia l’indipendenza politica dei Paesi postcoloniali sia il mantenimento dei gruppi, delle classi, dirigenti ora al potere. Da qui, giocavano sulla competizione tra Est e Ovest per l’accesso ai mercati dei Paesi medio-orientali: dai prodotti di consumo, alle infrastrutture, alle armi fino alle istituzioni di governo. Questo valse sia per i Paesi filo-socialisti come Siria, Iraq, Libia, Algeria o l’Egitto di Nasser sia per quelli filo-occidentali come Turchia, Tunisia, Giordania o gli stessi Iran ed Israele. Ognuno, ovviamente, con le proprie specificità. Altra caratteristica era quella di fare appello alle rispettive superpotenze alleate ogni qualvolta questo o quel gruppo dirigente erano impegnati in un conflitto interno o regionale di cui però non erano in grado di venirne a capo: sia per mancanza di risorse materiali sia per incapacità politica. Si chiamava allora in causa la minaccia della “sovversione comunista”, che sarebbe soggiaciuta ai nazionalismi secolarizzati, oppure la minaccia dell’imperialismo statunitense che avrebbe guidato la “reazione” dell’Islam politico e dei wahabbiti sauditi. Se soldi, armi e diplomazia di Washington e Mosca tardavano ad intervenire, l’escalation della violenza e della retorica vennero spesso usate per scuotere i rispettivi alleati a proprio sostegno.

Questa logica strumentale valse nella Guerra Fredda in Medio Oriente, tanto che gli interventi di USA e URSS provocarono la radicalizzazione dei conflitti regionali e locali, più che la loro risoluzione. Unica eccezione, la crisi di Suez del 1956. Altrettanto, gli interventi legati alla Guerra Fredda minarono le forze che lavoravano allo sviluppo pacifico, plurale e democratico nella regione. E questa logica strumentale la ritroviamo di recente negli appelli fatti sia dagli alleati medio orientali di Mosca, in primis il governo di Damasco, sia da quelli di Washington, in particolare Turchia e Arabia Saudita ogni volta che si sono trovati in difficoltà oppure ad un punto di svolta. L’obiettivo è quello di mobilitare ancor più il sostegno esterno a favore della propria causa. Il rischio, però, è legato all’internazionalizzazione del conflitto: le sorti della guerra vengono ufficialmente delegate a potenze esterne che hanno i propri obiettivi e che peraltro non hanno pieno controllo degli sviluppi sul campo, dove continuano invece ad operare le forze medio-orientali. In conclusione, gli appelli alla Guerra Fredda e all’intervento esterno sono sempre stati forieri di un’escalation della violenza: nei tempi e negli spazi odierni, questo si traduce nella speranza di giocare il tutto per tutto per la vittoria strategica ad Aleppo, nel caso del Governo di Damasco; oppure nel più limitato “salvare il salvabile” della propria influenza nel nord della Siria e dell’Iraq da parte del Presidente turco Erdogan.