Le proteste in Cile: fine della Costituzione di Pinochet o inizio di una nuova ricetta anti neoliberismo?
Il 14 ottobre 2019 la nazione che era considerata dal suo presidente Piñera un’“oasi” di progresso economico e sociale nel mezzo del mare tempestoso dell’America Latina si è riversata nelle strade di Santiago per cominciare una serie di manifestazioni che hanno aperto un solco incolmabile nella fiducia cieca delle classi politiche cilene nella continuazione di un modello che, nella sua sostanza costituzionale ed economica, è stato creato a seguito del golpe militare del generale Augusto Pinochet del 1973. Nonostante la causa scatenante delle proteste che si sono sviluppate in tutto il paese sia stato il rincaro del prezzo di 30 pesos nelle ore di punta dei biglietti della metro di Santiago il volume e la partecipazione di un variegato complesso di elementi sociali cileni fa presupporre una serie di problematiche ben più ampie e stringenti di un semplice aumento del costo di un bene pubblico. La iniziale reazione forte e violenta del governo, con la polizia e l’esercito che sono stati accusati di violazioni dei diritti umani nei confronti dei manifestanti, sottolinea una frattura netta tra una classe politica che non rappresenta che una minoranza del paese e il resto della popolazione: l’incapacità dei leader politici di intendere quali siano le reali ragioni di una così forte e tenace mobilitazione di massa ha portato a una serie di risposte completamente inadeguate, oltre a una serie di dichiarazioni iniziali che denotava una chiara mancanza di connessione con le rivendicazioni dei manifestanti. Il presidente Piñera ha quasi immediatamente dichiarato lo stato di emergenza e autorizzato una serie di violenze verso i prigionieri politici che hanno rasentato le persecuzioni dell’epoca di Pinochet.
Proprio il richiamo al regime passato e alle sue ricette economiche è risultato essere uno dei temi più unificanti nell’ambito delle proteste in Cile. La capacità della popolazione di resistere alle misure violente del governo e successivamente alle promesse populiste -come quelle di aumentare le pensioni e i contributi statali alle categorie più esposte al rischio della povertà- denotano una totale incomprensione tra i due contendenti. La visione neoliberista che vige in Cile dal golpe del generale Pinochet è risultata virtuosa solo per i pochi privati che ne hanno usufruito, costringendo la maggior parte della popolazione a vivere in condizioni indubbiamente poco “virtuose”. Alla “oasi” di Piñera si contrappone dunque il “deserto” del resto delle masse cilene, abbandonate a sé stesse.
La scollatura tra governo e popolazione non è certamente avvenuta all’improvviso in questo ottobre 2019, ma ha delle radici profonde e irrisolte fin dalla transizione democratica dalla dittatura di Pinochet; a queste vanno aggiunte le secolari disparità sociali tra una oligarchia ricca e la massa dei mestizos che non hanno mai avuto uguali diritti, né sono mai stati integrati nella società moderna cilena. Nella storia dello stato neoliberista cileno vi sono stati numerosi momenti di sollevazione popolare, basti ricordare che solo nel XXI secolo vi sono state proteste nel 2001, 2006, 2011 e 2018. Il movimento di piazza dell’ottobre 2019 non è dunque che lo sfogo finale di una popolazione che non riconosce più da anni il governo in carica come rappresentativo e non ha alcuna fiducia in esso. Il bivio dove si trova il Cile al momento è fondamentale: da una parte si potrebbe verificare una crepa definitiva nell’edificio statale neoliberista cileno, aprendo la via a una maggiore rappresentatività e a un cambio dell’attuale gestione economica, improntata a una privatizzazione sfrenata e incontrollata, dall’altra a una ennesima serie di misure populiste -Piñera ha già paventato l’ipotesi di una decurtazione della metà dello stipendio dei parlamentari- che potrebbero contentare una parte dei manifestanti e mantenere, tuttavia, lo status quo.
Il carattere originale della manifestazione in Cile risiede dunque in una dichiarazione aperta di assoluta sfiducia della popolazione cilena nei confronti di tutte le classi politiche del paese, con conseguente rifiuto di una politicizzazione delle proteste: ogni riferimento ideologico è stato rifiutato dai manifestanti, sottolineando ancor di più lo scollamento totale tra vertici economici e e partiti politici con il resto del paese. Con l’accordo del 15 novembre scorso, in cui i vertici politici si impegnavano ad indire un referendum, previsto per aprile, per scegliere se scrivere una nuova Costituzione, una parte delle rivendicazioni dei manifestanti sembrerebbe esser stata ascoltata, cionondimeno il rischio di una serie di manovre atte a mantenere un sistema decisionale di stampo maggioritario escludente ogni partito politico che non sia conservatore o neoliberista è molto forte: in questo senso già sono stati mossi dubbi sulle personalità che potrebbero comporre la commissione, che farebbero parte di una coalizione del “passato”, che dovrebbe dunque pilotare il futuro del Cile.
La questione dello scollegamento definitivo tra politica cilena e popolazione rimane la problematica su cui il Cile deve trovare una soluzione, altrimenti il 2019 sarà rubricato come uno scoppio di rabbia senza alcuna soluzione, una scossa ma non un cataclisma per l’establishment neoliberista cileno. Ma il Cile ha manifestato definitivamente il suo dissenso e la sua assoluta necessità di cominciare un nuovo modello economico e politico: come citato da un cartello dei manifestanti la protesta non è nata a causa di “30 pesos” ma a causa di “30 anni”.
* Laureato magistrale in Scienze Storiche, Università di Bologna
di Luca Tentoni
di Francesco Provinciali *