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27 aprile 2024
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Il Papa impantanato in Venezuela

Loris Zanatta * - 04.01.2017
Nicolàs Maduro

Il 26 ottobre le agenzie informarono che Nicolás Maduro aveva incontrato Papa Francesco e che la Santa Sede s’impegnava a facilitare, insieme a UNASUR, il dialogo tra il governo venezuelano e l’opposizione. Il Venezuela era al bordo del bagno di sangue e il mondo plaudì. Perfino gli scettici, di cui faccio parte, sperarono che il Papa e Maduro si fossero intesi: perché, se no, quell’annuncio? L’incontro parve un salvagente lanciato a chi stava affogando, un gesto politico molto azzardato. Ma ben venga, pensai, se eviterà la carneficina garantendo un ritorno guidato alla democrazia. Su che altro poteva basarsi l’intesa? Non sono passati due mesi e a Caracas il dialogo è dato per morto. Il Papa festeggia gli 80 anni riunendo Santos ed Uribe. Ma sulla festa incombe lo spettro del vicino malato. 

 

Quel gesto causò grandi effetti. Alcuni buoni: accrebbe la speranza che la crisi avesse esito pacifico; altri meno: il governo brandì l’incontro con Francesco come un’arma contro l’opposizione; la quale, già divisa, si spaccò ancor più: i radicali, malfidenti e coi leader incarcerati, rifiutarono di dialogare con Maduro, ma i moderati non potevano dire di no al Papa, per cui accolsero il dialogo e sospesero le proteste. In termini politici, il bilancio era evidente: il governo pareva risorto; l’opposizione alle corde. Non penso fosse calcolato. Ma così è. Eppure ne valeva la pena, se utile a pacificare il paese e tornare alla normalità costituzionale.

 

Iniziò così la breve primavera del dialogo. Da Roma giunsero gli inviati vaticani, fioccarono parole promettenti e le prime strette di mano. Prese piede un tiepido ottimismo, ma qualcosa non quadrava: sugli obiettivi del dialogo, sulla diagnosi della crisi, sul ruolo della Chiesa, su tutto. Gli obiettivi: urgeva pacificare il paese e uscire dall’emergenza umanitaria causata dal tracollo economico; tutti d’accordo. Ma come? La risposta dipendeva dalla diagnosi della crisi. L’opposizione aveva solidi argomenti: la crisi sociale è responsabilità del regime che governa dal 1998, la soluzione può essere solo politica; il referendum revocatorio previsto dalla Costituzione o elezioni generali. Risolta la crisi politica, si potrà sanare quella sociale. Ma il governo non ci sentiva. La crisi, scrisse dopo l’incontro col Papa, era frutto del “sabotaje externo e interno”. Non v’erano elezioni alle porte, solo un nemico da respingere. C’erano le condizioni di un dialogo? Su cosa s’erano intesi Francesco e Maduro?

 

La Chiesa seguì il Papa e si spese per il dialogo. Ma l’impressione era che tra il Vaticano e i vescovi venezuelani non vi fosse gran sintonia. Il chavismo ne era così certo da voler trattare col Papa, mai con la Chiesa locale. Il fatto è che l’episcopato aveva denunciato in mille modi gli abusi del regime; il Papa invece evitava di muovere a Caracas le critiche impartite ad altri governi. Eppure il tasso di povertà che tanto a ragione lo preoccupa vi sta decollando. Sarà che quello chavista è un governo nazional popolare caro al pueblo cattolico, al 30% che l’ha votato alle elezioni legislative, ma inviso ai ceti medi, laici e “coloniali”.

 

Il dialogo non partì sotto buoni auspici, insomma: i nodi si aggrovigliavano invece di sciogliersi e mai nessun coniglio si vedeva spuntare dal cappello dei mediatori. Intanto gli attori del dramma recitavano la parte di sempre: il governo era baldanzoso, felice del rialzo dei prezzi petroliferi e del successo di Trump, che gli ridava l’agognato nemico; l’opposizione più che mai patetica con le sue divisioni e prigioniera di un dialogo che le faceva perdere consensi senza produrre nulla. 

  

Tacere non si poteva, dinanzi alla paralisi del dialogo. Tanto più che la crisi sociale si aggravava: la Caritas era lì a ricordarlo. Peggio: Justicia y Paz, organo della Conferenza Episcopale venezuelana, informò che i corpi di dodici giovani sequestrati dai militari nello Stato di Miranda giacevano in una fossa comune. Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, decise così di scuotere l’albero scrivendo alle parti: o dialogate in buona fede, o è inutile. Il governo era l’imputato principale: le misure per alleviare la situazione sociale non sono state prese, notò Parolin, il calendario elettorale non è stato fissato, l’Assemblea legislativa rimane deprivata delle sue funzioni, i prigionieri politici rimangono in carcere.

 

Se il Vaticano si illudeva ancora sul chavismo, la sua reazione fugò ogni dubbio; o così si suppone, da tanto fu violento e volgare Diosdado Cabello, l’uomo forte del regime: Parolin sta coi nemici, il Vaticano non si può intromettere nei nostri affari, i chavistas sono cattolici. Nulla di nuovo, per chi ricordi i conflitti della Chiesa coi totalitarismi del passato. Ma Cabello era incredulo: non riusciva a credere che Parolin parlasse a nome del Papa, peraltro silente. Cosa glielo faceva pensare? Cosa si erano detti Francisco e Maduto? 

 

In teoria, non tutto è perduto: a gennaio è fissato un nuovo incontro della Mesa de Dialogo. Sperare non nuoce, ma la situazione è peggiore di due mesi fa. La facilitazione vaticana, diciamolo, non ha facilitato nulla, semmai il contrario. Sta al governo spianare la via costituzionale: l’ha ribadito il cardinal Urosa Sabino, che a differenza del Papa non teme di denunciare la morte della democrazia nel suo paese. Altrimenti su cosa si dialoga? Data però la sua natura, la sua pretesa di non essere un governo comune bensì una rivoluzione che redime il popolo dal male, è dura immaginare che il chavismo si esponga a libere elezioni se pensa di perderle; come oggi sa che avverrebbe. A meno che non sia obbligato. Per essere credibile, la mediazione va accompagnata da pressioni per il ritorno alla via costituzionale. Il Papa, mi disse un giorno un feroce critico, deve essere evangelico, non democratico. Speravo fossero cose compatibili. Quello del Venezuela è però il tipico caso in cui per essere evangelici, conviene essere democratici.

 

 

 

 

* Professore ordinario di Storia dell’America Latina- Università di Bologna