Una svolta inaspettata?
Quando abbiamo sospeso le nostre pubblicazioni per la pausa estiva non ci aspettavamo la svolta che, probabilmente (al momento in cui scriviamo non si è ancora arrivati ad una conclusione), si determinerà alla fine di questo tormentato agosto.
La svolta non è la caduta del governo gialloverde. Che quella prima o poi ci sarebbe stata era abbastanza prevedibile, anzi stupiva che tardasse. Il successo di Salvini alle elezioni europee, ma soprattutto l’insuccesso dell’orientamento politico che intendeva imprimere al governo (accentuazione delle politiche securitarie, opposizione agli equilibri che si delineavano nella UE), segnalavano una crescente difficoltà a mantenere insieme un esecutivo, anche per il crescere delle insofferenze dei Cinque Stelle.
Inatteso era che la caduta del governo, pasticciata come ormai sempre questa politica priva di cultura istituzionale, potesse portare anziché ad elezioni anticipate (al massimo mediate da un governo di tregua per gestire il varo della legge di bilancio) ad una nuova coalizione fra M5S e PD (con l’appendice di qualche gruppetto minore ormai chiaramente al suo traino). Si tratta di un esperimento che mette insieme due forze assai distanti, anche più di quanto non fossero Lega salviniana e Cinque Stelle: queste erano unite da un sentimento antipolitico e anti-istituzionale e da una confusa utopia sul ribaltamento del mondo tradizionale, mentre il PD rimane il più “vecchio” dei partiti esistenti, perché sostanzialmente in mano ad una classe di professionisti politici.
A rendere possibile questo incontro sono stati due fattori: uno contingente ed uno collaterale. Quello contingente è la volontà in entrambi di evitare una prova elettorale che si preannunciava molto favorevole solo per Salvini, che i sondaggi spingevano incessantemente verso vette di consenso sempre più alte. La prospettiva di una egemonia della destra populista che poteva così avere in mano il parlamento che avrebbe eletto ad inizio 2022 il successore di Mattarella preoccupava per non dire di peggio, mentre il consenso di M5S risultava in calo e senza ripresa, mentre quello del PD, pur migliorando dopo la deludente performance delle europee, era ben lontano dal decollare.
Tuttavia non sarebbe bastata questa paura interessata se non fosse arrivato un fattore collaterale, connesso con quella, ma anche indipendente: il sorgere all’orizzonte dello spettro di una nuova fase della crisi mondiale. C’erano da valutare, oltre a tutti i fattori di instabilità cronica (a partire dalla situazione in Medio Oriente), nuove problematiche: il conflitto sui dazi fra USA e Cina (che si univa all’ondivago avventurismo di Trump); l’approssimarsi dell’appuntamento con la Brexit, ora gestita da un politico non certo tranquillizzante come Boris Johnson; l’incrinarsi della locomotiva tedesca che andava per la prima volta in pre-recessione. Difficoltà che si erano riflesse nella gestione dell’avvio della nuova Commissione Europea, che aveva visto all’opera il saldarsi di un fronte antisovranista. Questo scenario ha molto preoccupato i gruppi dirigenti europei ed anche una quota considerevole di quelli italiani, che hanno considerato troppo rischioso lasciare che l’Italia si avviluppasse nella demagogia di una campagna elettorale dai forti connotati populisti.
Si è così sviluppata una pressione perché il PD accettasse di assumersi il rischio di tentare un accordo di coalizione coi Cinque Stelle, che, da parte loro, si vedevano gratificati dall’essere inaspettatamente rimessi al centro del “gioco che conta” dopo una esperienza grigia, per non dire fallimentare al governo.
Questo ha però messo nelle mani del capo politico pentastellato quello che ha interpretato come un notevole peso contrattuale, fino ad illuderlo addirittura di poter giocare contemporaneamente su due tavoli: negoziare col PD imponendo le sue condizioni, lasciando contemporaneamente intendere che non era del tutto sordo ai messaggi di ricucitura che gli mandava un Salvini ormai consapevole di aver giocato la carta sbagliata. La situazione non stava però in questi termini. Le forze esterne alla politica politicante non erano disponibili ad elevare Di Maio al ruolo di principale giocatore e invece puntavano sulla conferma del premier Giuseppe Conte, uomo proveniente dall’establishment (romano), che aveva mostrato soprattutto in politica estera ed europea di essere più interessato ad essere ammesso nel grande club internazionale che a contendere la palma di capo populista ai suoi due vice.
Sembra che alla fine questa linea abbia prevalso, anche se al prezzo di tensioni e di compromessi la cui tenuta potrà essere verificata solo col tempo. L’incognita che rimane, ma è inevitabile, è se un accordo politico tra M5S e PD possa reggere a quel che ci metterà davanti la congiuntura europea e internazionale. I Cinque Stelle sono poco attrezzati quanto a classe dirigente all’altezza delle difficoltà prevedibili e non sappiamo se il PD possa essere in grado di tenerli sotto controllo facendoli maturare senza però provocarne la reazione. Conte, se sarà come sembra riconfermato premier, avrà il delicato compito di dirigere questa operazione di riequilibrio della politica italiana fra componenti tradizionali che si rinnovano e nuove componenti che devono uscire dalla loro adolescenza. Se sia all’altezza di un compito così difficile lo vedremo: anche lui dovrà fare un bel salto di qualità senza rompersi l’osso del collo.
di Paolo Pombeni
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