Ultimo Aggiornamento:
24 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Una repubblica fondata sul lavoro

Paolo Pombeni - 01.05.2019
Articolo 1

In un intreccio continuo di ritualità festive, alcune più solenni e certificate, altre più inventate per vari usi (molto spesso commerciali), si sta perdendo il senso delle “celebrazioni” che dovrebbero essere atti collettivi fra degli officianti che rappresentano qualche cosa e un popolo che si fa coinvolgere e trasformare in quella rappresentazione. È inutile strapparsi le vesti per la perdita del senso di sacralità della maggior parte delle festività che giudichiamo importanti e in senso tecnico significative (lo si è appena fatto a proposito del 25 aprile). Il coinvolgimento non si può imporre per legge e troppo spesso coloro che si appropriano di questo sentimento finiscono per farne una cosa settaria poco capace di attrarre a sé chi per varie ragioni non riesce ad esserne partecipe.

Il problema profondo è che per le feste civili come per quelle religiose è necessaria un’opera di acculturazione continua che renda comprensibili e condivisibili i valori che si vogliono rappresentare e onorare evitando di trasformarli in retoriche celebrative.

Per ragioni di calendario vogliamo applicare questa riflessione al Primo Maggio, festa del lavoro, ricorrenza comune a molti paesi, ma di particolare significato nel nostro che si definisce nella sua Carta fondamentale “una repubblica fondata sul lavoro”.

Quella definizione, che troviamo molto bella e significativa, è troppo spesso banalizzata in una accezione che definiremmo piatta. Si sa che è oggetto spesso di attacchi, vuoi infondati (la tesi che venga da una impostazione “sovietica”: Berlusconi dixit), vuoi vetero culturali (i neoliberali che si rammaricano che il lavoro abbia sostituito la libertà come perno dello stato). Ripercorrere il senso e il significato di quella solenne proclamazione sarebbe un esercizio più utile che ridurre semplicemente la ricorrenza del Primo Maggio ad una autocelebrazione dei sindacati, fra il resto in un periodo in cui essi hanno perduto la capacità di rappresentanza universale che pure hanno detenuto per un certo periodo nel passato.

La questione fondamentale che sta dietro la messa al centro del lavoro come fondamento della democrazia è legata al tema dell’eguaglianza. Intendiamoci: non l’eguaglianza come astratto appiattimento di tutti in una generica qualifica, i famosi “lavoratori del braccio e della mente”, ma la ricerca della caratteristica profonda che fa di ogni donna e uomo un valore che non può essere gerarchizzato rispetto ad altri uomini e donne.

Il lavoro non è semplicemente il fatto che l’uomo possa guadagnarsi da vivere grazie alle sue capacità che può mettere al servizio della società in cui vive ricavandone un reddito. Naturalmente sappiamo bene che se non gli è consentito farlo non può guadagnare e questo lo pone in una condizione di inferiorità intollerabile: è la piaga della disoccupazione, o anche già della sotto occupazione, che le società moderne sono impegnate ad espungere perché minano la solidarietà che le regge. Il giusto salario, la piena occupazione, la promozione della dignità del lavoro, sono conquiste storiche la cui importanza non va sottovalutata. Diventano particolarmente importanti oggi quando le giovani generazioni, e ormai anche quelle un po’ meno giovani devono sopportare di non poter godere di queste tre indispensabili condizioni (non le chiamiamo “diritti” perché, ce lo si consenta, quella è diventata una parola svalutata dall’abuso che se ne fa per difendere spesso privilegi o conquiste dovute a circostanze particolari).

Vogliamo solo dire che il lavoro non può essere ridotto a quell’ambito. Il lavoro è il privilegio che la natura ha dato all’uomo di poter essere “creatore”. La parola è grossa, ma deve servire per coprire e dare la giusta dignità alle molte attività che le donne e gli uomini svolgono per esercitare le proprie capacità creative. Siamo abituati a definire così solo quelle a cui riconosciamo un rilievo particolare, la creatività del grande artista e simili, ma in realtà il principio è eguale in tutto ciò che si fa per dare vita e presenza a qualcosa che accende nell’esecutore la soddisfazione di realizzare e realizzarsi e che va a beneficio dei suoi simili.

In questo paese che attraversa una fase di rapporto traumatico col lavoro, un po’ per la sua mancanza, un po’ per la voglia di uscire il prima possibile dal rapporto tradizionale di impiego (il mito esasperato della “pensione”), andrebbe ricordato che in controtendenza registriamo una ampia presenza di “lavori volontari” delle più diverse specie: da quelli indotti dal sistema di welfare familiare che sostiene le reti sociali a quelli più vari del volontariato in moltissimi campi.

L’Italia è una “cosa pubblica” (res publica), cioè un patrimonio di tutti, perché vuole reggersi su questa capacità dei suoi cittadini di essere “creatori”: di solidarietà, di benessere, magari in modi modesti, di vivere civile. Non c’è nulla di classista o di “sovietico” in quella formula “fondata sul lavoro”. Quando fu scritta c’era la voglia diffusa e profonda di “ricostruire” un mondo migliore, cosa evidentemente impossibile senza tanto lavoro. Oggi non c’è meno bisogno di “ricostruire”, anzi ce ne è di più, perché non ci rendiamo del tutto conto di quanto ce ne sia necessità.

Dunque dobbiamo ricostruire una solida etica del lavoro e della responsabilità, che non è affatto disgiunta dalla soddisfazione e dalla gioia che può dare il sentirsi partecipi della grande opera in cui una comunità può impegnarsi per far progredire il proprio destino.