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Una lezione dall’Emilia?

Paolo Pombeni - 25.11.2014
Elezioni regionali Emilia Romagna 2014

Se una rondine non fa primavera, un risultato elettorale regionale non fa la crisi di una svolta politica. Però ambedue sono segnali che vanno inquadrati e decifrati in un contesto.

Quel che è accaduto nelle elezioni dell’Emilia-Romagna non è solo un indicatore inquietante della crisi complessiva della politica in Italia, ma è anche un campanello d’allarme per la leadership di Matteo Renzi. Sul primo versante un astensionismo che arriva al 62,33 %  non è la sconfitta di un partito, ma di un intero sistema: significa che la maggioranza assoluta dei cittadini non considera più la politica come un terreno su cui meriti di impegnarsi. Con numeri di questo genere il rifiuto è collettivo, perché siamo chiaramente di fronte ad una presa di posizione di protesta, essendo inimmaginabile che oltre il 60% dell’elettorato sia fatto di gente che semplicemente non ha interesse per la cosa pubblica. Una parte almeno dell’astensionismo è in realtà una scelta di voto.

Ovviamente i partiti sono ormai tutti abituati a guardarsi l’ombelico, per cui ciascuno può esultare a prescindere da questo dato: il PD perché comunque ha portato a casa la vittoria, la Lega perché comunque ha battuto sonoramente Forza Italia, i grillini perché comunque hanno mostrato che possono essere dimezzati, ma non cancellati.

Per il PD il dato dovrebbe essere estremamente preoccupante, per cui c’è poco da cantare vittoria. I numeri sono impietosi: nelle precedenti amministrative Vasco Errani venne eletto “governatore” con 1.197.789 voti, mentre Stefano Bonaccini ne ha avuti 615.725; la coalizione che lo appoggiava raccolse allora 1.095.604 voti, mentre oggi ne ha 597.185. Già questo secondo dato dimostra che la crisi riguarda tutta un’area senza che ci siano grandi possibilità di spostare voti al suo interno (per essere espliciti: SEL, alleata, non ha drenato voti critici con le scelte “renziane”).

Ora, per cercar di capire quel che è successo bisogna partire dall’analisi dell’operazione che Renzi ha coperto e autorizzato in Emilia Romagna. Qui il PD è arrivato del tutto impreparato ad un appunto che era inatteso fino ad un certo punto, perché certo Errani si è dimesso anticipatamente, ma se non avesse ritenuto di doverlo fare per circostanze impreviste (la sua condanna in appello per una storia confusa) si sarebbe comunque posta la questione della sua successione la prossima primavera. Ebbene il partito non stava approntando alcuna strategia di ricambio, perché si riteneva che in Emilia il solido quindicennio di governo bonario e consociativo avesse una radice di consenso inestirpabile, anche se non si vedeva bene chi potesse prendere la guida di una fase successiva evitando di mettere in crisi quello che è corretto definire l’establishment.

L’emergere di un outsider che si candidava a guidare invece una fase sociale mutata, l’ex sindaco di Forlì Renato Balzani, è stata visto con estremo fastidio dalla vecchia “ditta”, sebbene sulla carta potesse rappresentare l’adeguamento alla rivoluzione renziana. Balzani è un uomo nuovo, non viene dalla nomenclatura interna dei centri di potere regionali, è un uomo dotato di una solidissima cultura (è un professore universitario e un intellettuale reputato).  Ma metteva in crisi la “ditta” che nelle analisi romane veniva appunto ritenuta come imbattibile per radicamento di militanza e per rappresentatività rispetto alle tradizioni della regione. Dunque si doveva trovare il classico “uomo-ponte”: un funzionario, certo di buon livello, proveniente da quel retroterra, ma convertito a Renzi da tempo. La scommessa era che Bonaccini, che indubbiamente conosce il territorio e il partito che lo abita come le sue tasche, fosse l’uomo giusto per dare un contributo all’immagine di vittoria della linea di Renzi, senza creare dei problemi con il vecchio apparato bersaniano che ha promosso una parte consistente di quel gruppo parlamentare di cui il premier ha bisogno per concludere i suoi percorsi legislativi.

Il fatto è che questo disegno, come è sotto gli occhi di tutti, non ha prodotto il risultato sperato, se non in termini astratti (cioè se si pensa che chi non vota non conta semplicemente nulla). In realtà il PD si è dovuto misurare con due fattori: il primo è un certo disgusto per la politica che è derivato dagli scandali in Regione che il partito ha gestito malissimo (non è stato capace di mettere sotto inchiesta il problema e di dare una sua sanzione sui fatti); il secondo è un probabile scollamento che il renzismo ha indotto con un tradizionale elettorato PCI molto legato a parole d’ordine di vecchia sinistra.

Qui sta un problema di cui il premier deve farsi carico. Il suo successo è stato in larga parte dovuto al richiamo sotto le sue bandiere di un elettorato “progressista”, ma estraneo alle mitologie culturali della sinistra tradizionale. Di più: in gran parte è un elettorato che non risponde ai tradizionali canali di reclutamento del consenso del vecchio PCI (sistema cooperativo, clientelismi dipendenti dagli enti locali, consociativismo colle elite al potere). Nel momento in cui Renzi ha scelto di privilegiare la “ditta” (e basta un’occhiata alle liste elettorali per rendersene conto) ha probabilmente perso quel tipo nuovo di elettorato e questa perdita si è sommata con quella di una quota di elettorato tradizionale che non accetta il suo scontro con la CGIL ed è sensibile alle accuse che gli sono rivolte di “non essere di sinistra”.

Insomma  le elezioni emiliano-romagnole non saranno un test per il governo, ma sono un indicatore importante dei nodi che la svolta di Renzi dovrà affrontare da qui in avanti: quando si cambia, le viscosità della tradizione sono sempre un problema e i cambiamenti non si possono fare a mezzo e, come direbbero i francesi, nell’ottica della politica politicante.