Ultimo Aggiornamento:
13 novembre 2024
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Gli ombrelli si chiudono: la Umbrella Revolution di Hong Kong volge al termine

Aurelio Insisa * - 25.11.2014
Quartiere Mong Kok

Dopo una breve ed intensa fase “sensazionalistica” concentrata soprattutto sugli aspetti più vistosi delle proteste (gli studenti ben disciplinati che fanno la raccolta differenziata, il fantasma di Tian’anmen che aleggia sulle scelte di Pechino, i grandi raduni di massa sotto la pioggia), tra i mezzi di informazione italiani, secondo un copione ormai ben consolidato, è velocemente e impietosamente calato il silenzio sulla cosiddetta Umbrella Revolution di Hong Kong.

In realtà, sebbene la fase delle grandi dimostrazioni di massa si sia conclusa ad inizio ottobre, quest’ultimo mese e mezzo non è stato privo di eventi rilevanti. Nel secondo sito delle proteste, nel quartiere popolare di Mong Kok a Kowloon, i manifestanti sono stati ripetutamente aggrediti da membri delle organizzazioni criminali locali, le triadi. La motivazione immediata di questi attacchi sono i mancati introiti delle attività economiche controllate dalle triadi nella zona occupata, ma è quasi certo  il coinvolgimento di alcuni ambienti vicini alla polizia e al governo locale allo scopo di contrastare i manifestanti.

Dopo giorni di tensione tra i manifestanti della Umbrella Revolution da un lato e alcuni sparuti ma combattivi gruppi di sostenitori pro-governativi, con la polizia a giocare un ruolo non proprio super partes, i rappresentanti dei movimenti studenteschi si sono infine confrontati con rappresentanti del governo locale la sera del 21 ottobre in un incontro trasmesso in diretta sulle reti televisive locali. L’incontro, osteggiato da parte dagli ambienti più radicali della protesta, si è risolto in un tanto scontato quanto eclatante nulla di fatto che ha definitivamente sancito la morte politica, almeno nel breve periodo, delle proteste.

Le settimane successive all’incontro sono state quindi caratterizzate da una costante diminuzione dei numeri dei manifestanti ed un estenuante tira e molla tra manifestanti e polizia per la rimozione delle barricate. Al momento della scrittura di questo articolo, sembra imminente la rimozione completa e definitiva di tutti i siti della protesta, compreso quello principale in Admiralty, da parte della polizia.

 

La vittoria di Pechino

 

Il silenzio dei mezzi di informazione occidentali e il lento anticlimax che ha portato alla sconfitta delle proteste costituiscono un’importante vittoria per Pechino. Fin dalle fasi iniziali della Umbrella Revolution era evidente che i governi di Hong Kong e di Pechino non sarebbero mai scesi a compromessi con i manifestanti, portatori di un messaggio politico e di una visione del futuro della città irriconciliabili con i piani del Partito Comunista Cinese. Ciò che non era ben chiaro era come Pechino avrebbe gestito le proteste e quale exit strategy avrebbe trovato il movimento per non perdere credibilità e rilevanza nel panorama politico di Hong Kong.

L’amministrazione di C. Y. Leung, ed i suoi referenti a Zhongnanhai hanno saggiamente scelto di evitare lo scontro frontale coi manifestanti, pazientando nel momento più critico delle proteste, quando i manifestanti erano riusciti a portare decine di migliaia di persone per le strade grazie anche alle vacanze per la Festa Nazionale dell’1 ottobre. Consapevoli dell’impossibilità di mantenere quel grado di mobilitazione e coesione sociale tra i manifestanti in assenza di risposte violente da parte delle forze dell’ordine, i due governi hanno aspettato che il numero di manifestanti scendesse sotto la soglia critica per poi cominciare una lunga operazione di sfiancamento, sia psicologico che fisico, attraverso numerosi scontri “a bassa intensità” con le triadi e la polizia locale. Allo stesso tempo gli impedimenti di carattere economico e logistico provocati dalle occupazioni hanno pian piano cominciato ad influire sulla percezione delle proteste da parte della maggioranza della popolazione cittadina.

Persa la capacità di mobilizzare e coinvolgere le masse della città, il movimento si è infine diviso, radicalizzato e demoralizzato, arenandosi sulle posizioni più oltranziste e irrealizzabili, e non riuscendo a trovare una vera alternativa alla richiesta immediata di suffragio universale diretto senza lo screening per le elezioni del 2016. Sebbene la federazione studentesca, la componente più attiva del movimento, continui a godere della stima e dell’appoggio di gran parte della popolazione secondo recenti sondaggi, vi è ormai un vasto consenso che questa fase della protesta sia ormai giunta al termine e non possa più produrre risultati sostanziali.

Pechino ha quindi vinto, dimostrando allo stesso tempo di aver recepito la lezione di Tian’anmen, senza perdere credibilità di fronte ai propri cittadini e ai paesi stranieri. Anzi, proprio durante il crepuscolo delle proteste a Hong Kong la Cina è sembrata emergere per la prima volta come una superpotenza globale, la sola alla pari con gli Stati Uniti, durante il recente vertice dei leader dell’APEC nella capitale cinese.

Eppure è difficile pensare che qualcuno a Pechino pensi che la partita sia definitivamente chiusa. La gestione delle proteste ha inevitabilmente radicalizzato e alienato un’intera generazione di giovani istruiti che inevitabilmente giocheranno un ruolo fondamentale nel futuro della città. Ad un livello ancora più profondo, le proteste hanno evidenziato una volta di più la frattura fra l’identità locale e quella nazionale cinese e acuito la sfiducia della popolazione verso le istituzioni politiche hongkonghesi.

La vera posta in palio nello scontro tra il fronte democratico locale ed il governo centrale di Pechino continua a rimanere l’assetto della città dopo la fatidica data del 2046, e nulla assicura che le strategie che hanno avuto successo in questa occasione saranno efficaci anche negli anni a venire.

 

 

 

Dottorando presso il Dipartimento di Storia della University of Hong Kong