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Un paese in crisi profonda

Paolo Pombeni - 09.11.2019
ArcelorMittal

Talora a mettere drammaticamente in chiaro situazioni ambigue intervengono fatti imprevisti: è esattamente quel che sta accadendo con la vicenda dell’Ilva. La disgraziata storia di questa grande fabbrica è stata ricostruita in abbondanza dai giornali e già nel ripercorrerla si legge il declino di un paese abituato a pasticciare coi problemi anziché ad affrontarli. Ma siccome il nostro motto nazionale è, come dice la canzone, “scurdammoce ‘o passato”, tutto si concentra sull’ultima puntata, cioè sulla decisione dell’ultimo prospettato compratore (per il momento affittuario), il colosso franco-indiano Arcelor-Mittal, di abbandonare il campo.

Si discute se la ragione addotta dall’azienda, la cancellazione del promesso “scudo legale” a tutela di chi farà l’azione di risanamento ambientale, sia davvero il motivo o sia una scusa per uscire da un’impresa che non si giudica più fattibile. Purtroppo sono vere entrambe le facce della medaglia, cioè da un lato è verosimile che Arcelor-Mittal abbia finito per giudicare quasi infattibile il recupero dell’Ilva, dall’altro lato a questa conclusione è giunta perché la vicenda dello scudo legale ha messo in luce tutti gli elementi che rendevano più che problematica la riconversione.

Giustamente è stato notato che ha complicato non poco il quadro la crisi indotta sul mercato internazionale dell’acciaio dalla guerra commerciale fra i colossi economici che si è scatenata negli ultimi tempi. Tuttavia anche questa è riassorbita nel quadro della generale debolezza del sistema italiano tanto sul piano politico che su quello economico. Le grandi compagnie internazionali sono soggetti che fanno politica, quasi dei poteri a loro modo sovrani, e dunque abituate ad analizzare quanto avviene nei sistemi politici con cui devono confrontarsi.

E cosa hanno visto nel sistema italiano? Un quadro politico assolutamente privo di stabilità, in cui non emergeva un interlocutore affidabile. Hanno avviato una pratica con un governo di centrosinistra poi travolto dalle elezioni, l’hanno perfezionata con un governo gialloverde che si è dimostrato litigioso e poco affidabile al punto da aver dato in mano un dossier delicato ad un ministro chiaramente non all’altezza, si sono trovati a misurarsi con un ribaltone che ha portato alla nascita di un governo giallorosso con dentro quello stesso personaggio senza che peraltro si arrivasse all’individuazione di un vero timoniere della vicenda. In questo contesto, che definire confuso è un eufemismo, hanno dovuto fare i conti con un sistema giudiziario che ha ampi poteri di intervento praticamente su tutto, ma che non è in grado di esercitarli in maniera compiuta, perché ad atti draconiani (sequestri, ingiunzioni, arresti, ecc.) non seguono in tempi rapidi processi che consentano verifiche di quei poteri e conclusione delle vicende. Il cosiddetto scudo legale avrebbe dovuto mettere un minimo al riparo da queste anomalie giudiziarie, ma si è constatato che nel caos la demagogia imperante era subito entrata a fare scudo al mantenimento dello status quo del sistema giudiziario.

Naturalmente la demagogia ha buon gioco a buttare tutto sul patetico: difesa della salute pubblica, tutela dell’ambiente e via dicendo. Nessuno può sostenere che quelli non siano problemi cruciali, solo che non si possono risolvere pensando che sia possibile azzerarli rapidamente come se fossero dipendenti da un semplice comportamento umano o tecnico sbagliato che basta interrompere e ogni cosa sarà sistemata.

Tutto questo si inserisce in una crisi di governo sempre più evidente, ma imbalsamata dalla difficoltà per tutti di uscirne. Siamo in sessione di bilancio e far saltare subito il governo significherebbe rischiare di andare all’esercizio provvisorio. L’unica soluzione per evitarlo sarebbe la nomina accelerata di un governo tecnico di transizione, che però dovrebbe avere la fiducia del parlamento e già questa è un’incognita. Praticamente l’operazione dovrebbe contare su un accordo largo tra forze dell’attuale maggioranza e forze dell’opposizione in nome della salvaguardia rispetto ad una possibile crisi economica pesante. Difficile avere questo miracolo perché si tratterebbe tanto per gli uni quanto per gli altri di sottoscrivere una manovra finanziaria che inevitabilmente deve rastrellare nel paese una certa somma di denaro, cosa che nessun partito ama fare alla vigilia di elezioni anticipate.

E allora? Anche tirare a campare è per l’attuale governo impresa ardua perché di nuovo si tratta di intestarsi operazioni finanziarie che sono bombardate dall’opposizione e su cui nella maggioranza non c’è nessuna intesa, né si è intenzionati seriamente a cercarla. Ci sono con tutta evidenza due ostacoli quasi impossibili da superare. Il primo è dato dallo stato confusionale in cui versano i Cinque Stelle. Le loro lotte intestine, la sempre più evidente incapacità di Di Maio di rivestire il ruolo di “capo”, lo sbandamento della loro base certificato dalle analisi dell’andamento del movimento nelle ultime tornate elettorali e dai sondaggi, sono tutti elementi che bloccano un riposizionamento responsabile dei pentastellati.

E poi c’è Renzi con la sua guerra corsara. Qui la situazione è la seguente. All’inizio vari avevano pensato che comunque l’iniziativa del senatore di Rignano di fondare un nuovo partito “centrista” potesse servire allo stesso PD: gli toglieva una spina nel fianco e magari poteva portargli i voti provenienti dalla crisi del moderatismo (quello di FI ma anche di altri). Invece la seconda prospettiva si sta dimostrando inconsistente e la prima non si è realizzata. Anzi Renzi per consolidare la sua presa può solo tentare di vampirizzare il PD, se non altro cercando di delegittimarlo come perno della politica responsabile perché così può occupare lui quel ruolo.

Dire a questo punto che la situazione è davvero critica sembra un inutile eufemismo.