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Ilva: strade in salita

Gianpaolo Rossini - 09.11.2019
Ilva

La produzione di acciaio italiana concentrata per una buona fetta a Taranto è sotto assedio. L’Ilva è in profonda crisi. L’impresa in precedenza di proprietà della famiglia Riva, oggi parte della multinazionale Arcelor Mittal, è un’eredità della defunta IRI, istituto per la ricostruzione industriale nato negli anni 30 del secolo scorso per soccorrere e rilevare imprese e banche colpite dalla grande crisi. Del patrimonio IRI non è rimasto nulla. Tutte le partecipazioni sono state vendute ad operatori privati industriali e finanziari. Italsider-IRI con diversi impianti in Italia tra cui Taranto viene privatizzata nel peggiore dei modi subendo uno spezzatino e perdendo le sinergie di impianti fratelli a Cornigliano, Piombino e Bagnoli. Quest’ultimo chiuso per ragioni ambientali, i primi due ceduti a privati mentre il polo di Taranto va alla Riva acciai che possiede altri impianti tra cui alcuni rilevati nella ex Germania Est. La privatizzazione dell’Italsider è una tappa di una Caporetto industriale del Bel Paese ahimè ancora in corso. La crisi del polo di Taranto, ora nelle mani della multinazionale franco indiana Arcelor Mittal, nasce così. La pubblica Italsider opera a lungo in un regime di mercato semi-chiuso alla concorrenza internazionale fino agli anni 80 del secolo scorso in una Europa dove il mercato dell’acciaio è organizzato quasi come un cartello con una spartizione di quote nei diversi paesi. Occorre ricordare che l’inizio dell’integrazione europea ha caratteristiche ben diverse da quelle che si affermano in seguito soprattutto a partire dallo stabilirsi del Mercato Unico nel 1993. La CECA, comunità del carbone e dell’acciaio, dalle cui ceneri nascerà nel 1957 la Comunità Europea con il Trattato di Roma, è un accordo di protezione e spartizione di quote di produzione per paese per l’acciaio. Il grande boom economico del Bel Paese, ma anche della Germania, fiorisce in un ambiente protetto da dazi doganali e da accordi come quello per l’acciaio. Tutto o quasi cambia circa 40 anni fa quando inizia il processo di globalizzazione con mercati aperti e con una simultanea ritirata della proprietà pubblica che spesso, proprio come avviene quando gli eserciti retrocedono, significa abbandono e distruzione. In più si aggiungono nuove norme ambientali e una mutata consapevolezza dell’inquinamento. Il settore pubblico dell’acciaio soffre enormemente questo shock multiplo. Da quando nel 1995 il polo di Taranto passa a Riva il decadimento accelera. Governi, autorità di vigilanza e magistratura tardano molto ad intervenire sui molteplici aspetti ambientali, tecnologici e sociali della produzione di acciaio a Taranto. Quando lo fanno usano demagogia e si mostrano maldestri. Nonostante questo il polo continua a produrre acciaio di ottima qualità ma deve fare i conti con la crescente concorrenza dei paesi emergenti in Asia e Sud America dove i requisiti di rispetto ambientali e dei diritti dei lavoratori sono particolarmente deboli. In questo nuovo contesto si aggiungono le recenti politiche dell’amministrazione Usa che con Trump ha preso a cuore la sorte del settore acciaio coprendolo con robusti dazi doganali. Quando un paese grande come gli Usa impone dazi sulle importazioni di un bene, nel resto del mondo, privo di difese protezionistiche, si scatena una concorrenza feroce complici di flussi produttivi geograficamente deviati dai dazi. Quello che Cina e India vendevano comodamente oltreoceano ora lo riversano in Europa a prezzi di saldo. Ilva fatica a reggere questo shock anche perché deve simultaneamente affrontare un calo della domanda in Europa. Da qui la temporanea forzata riduzione di produzione che la multinazionale franco indiana stima come permanente e quindi minaccia di fare le valigie. Quali le possibili soluzioni? Certo occorre evitare la fuga della nuova proprietà anche se forse è stato un errore accettarne ingresso e termini del contratto. Ma questa è politica che vive ahimè di recriminazioni che non portano a nulla. A Taranto hanno bisogno invece di guardare avanti. La riduzione di personale è permanente o temporanea? Il Governo deve avere un approccio ottimista e scommettere che sia temporanea e quindi accordare gli ammortizzatori per affrontarla con cassa integrazione, costosa ma imprescindibile. In secondo luogo Italia e, se possibile ma senza illuderci, Europa, devono in fretta spingere un grande piano infrastrutturale che può avere un positivo effetto ambientale e stimolare la domanda di acciaio. Le nuove infrastrutture sia a Nord che a Sud dovranno essere però pagate dai cittadini che le utilizzeranno pena un trasferimento di oneri finanziari tra soggetti privati e pubblici che produce cortocircuito finanziario che l’Italia non può permettersi. Infine a livello europeo occorre rivedere la struttura dei dazi sulle importazioni di acciaio per non finire schiacciati in una competizione internazionale dove tutti indossano corazze protettive tranne noi.