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Stress Test Elettorale

Paolo Pombeni - 03.06.2014
Stress Test

Ricordate lo stress test delle banche? Fu inventato negli Usa (e poi importato anche in Europa). Serviva, per riprendere la definizione di Wikipedia, per “ una valutazione della riserva di capitale da parte della Federal Reserve americana e delle autorità di vigilanza bancaria per determinare se le organizzazioni bancarie più grandi degli USA avessero capitale sufficiente a reggere l'impatto di un ambiente economico più difficile rispetto a quanto attualmente previsto”.

 

Bene, qualcosa di simile si dovrebbe fare con gli attori del sistema politico italiano, principalmente i partiti. Ovviamente in questo caso non c’è nessuna “autorithy” esterna che possa valutare: dovrebbe essere compito degli stessi soggetti sotto esame, ma non sembra che ci sia in giro una gran voglia di mettersi all’opera su questo terreno difficile.

 

Si pensa in genere, con un eccesso inspiegabile di ottimismo, che non si andrà incontro ad un “ambiente più difficile”. Chi ha guadagnato sembra dare per scontato che non arretrerà.  Se  si ricorda il precedente del PCI che alle regionali del 1975 si avvicinò grandemente alla DC (33,4% contro il 35,7%) per poi vedere un anno dopo aumentare nuovamente il distacco (34,3% contro 38,7%) si viene presi per gufi o rosiconi. Chi ha perso si consola invece dando la colpa a qualche “diavolo”: i pensionati che non vogliono cambiare, i moderati che si frammentano, il mancato spazio sui media.

 

Ci permettiamo di dire che è davvero ingenuo immaginarsi che il terremoto elettorale dello scorso 25 maggio abbia determinato la stabilizzazione del sistema politico, non diremo per il prossimo decennio, ma neppure per i prossimi anni. Proviamo a ragionarci sopra.

 

Innanzitutto non convince l’analisi, che si avanza da più parti, secondo la quale la “sinistra” avrebbe raggiunto o quantomeno sfiorato la maggioranza dei consensi, sicché si assiste al solito rito dell’invocazione del grande partito unico della sinistra. Ormai al partito unico della classe operaia non crede neppure più la Camusso che ha rilanciato, ma anche questa non è gran novità, il partito dei lavoratori e dei ceti medi uniti (ma i secondi non son fatti anch’essi da lavoratori?).

 

Renzi rischia di essere soffocato dall’abbraccio di quelli che sono vogliosi di incoronarlo leader supremo a patto che faccia quel che vogliono loro. Il premier naturalmente è uno, se ci si passa l’espressione, “scafato” e non si sa quanto starà a quel gioco, ma non può neppure eludere il tema di come consolidare il suo partito nuovo, disinvoltamente definito “partito della nazione”. Ha bisogno più che di organigrammi di strategie per trasformare le sue denuncie dei punti deboli del sistema, in azioni di autentico risanamento. Siccome per quello ci vogliono tempo e intelligenze, deve cominciare a pensarci seriamente, inserendo questi due fattori nelle sue “narrazioni” (che invece al momento non contengono alcuna pedagogia su questi due aspetti, col rischio di vedersi accusato di promesse disattese).

 

Resta il fatto che Renzi e il “suo” partito sono al momento i dominatori dell’arena politica. E gli avversari?

 

Qui si nota tutta la debolezza del vecchio blocco politico a cui si erano affidati quelli che con un eufemismo si definiscono i “moderati”, ma che in realtà sono le categorie sociali che hanno principalmente beneficiato della relativa anarchia degli ultimi trent’anni (e la forte presenza del Sud in esso la dice lunga). Quel blocco, che aveva trovato in Berlusconi il suo aedo, più che la sua guida, non sa bene come ridefinirsi. Sulla carta è attratto da due sirene contrapposte: l’una lo solletica a diventare semplicemente un blocco di destra radicale, arroccata sui miti della fuga dal dilemma della modernità (la nuova-vecchia Lega punta a prenderne la guida); l’altra gli fa balenare l’idea di inserirsi momentaneamente nella partecipazione al governo della transizione, per condizionarla a non toccare troppo gli antichi equilibri di potere (con la riserva di staccarsi al momento opportuno dall’alleato progressista non appena esso si indebolisse: la strategia di Alfano, UDC e compagni).

 

In mezzo ci sono tutti quelli che non sanno decidersi, a cominciare da Berlusconi e dalla sua cerchia di fedeli. In questo caso il vecchio capo, ormai sfiatato, non vuole mollare e fa oscillare i suoi fra una minaccia di andare a rafforzare la destra radicale e un lasciar intendere che in fondo la strategia dei neo-centristi potrebbe anche non essere male, solo che si lasciasse di nuovo a lui la guida dell’operazione. La sostanza è che questo replay storico di un famoso “né aderire, né sabotare” (visto che siamo vicini al centenario del 1915) finirà come appunto quell’illustre precedente: una sconfitta politica totale.

 

Dei vecchi e nuovi  “cespugli” non val neppure la pena di parlare. Per restare al parallelo iniziale con lo stress test delle banche, finiranno come i piccoli istituti di credito, di cui nessuno tiene conto, perché sono foglie al vento nella crisi economica, come loro lo sono nella crisi politica.

 

Resta l’incognita del successo della rivolta populista di Grillo e soci. Non si è indebolita in maniera sostanziale, ma ha davvero incontrato solo un momento di stasi. Il suo futuro dipende dagli altri: se riescono a riequilibrare il sistema in maniera credibile e accettabile, quel populismo si spegnerà più o meno lentamente. Se falliscono nell’operazione di ricostruzione, gli lasceranno davvero campo aperto come forza che darà l’ultimo colpo ad un sistema che non ha capacità di sopravvivere.