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Sciame sismico

Paolo Pombeni - 18.09.2019
Renzi fuori dal PD

Come è noto, dopo i terremoti arrivano gli sciami sismici: è il susseguirsi, che può essere anche piuttosto lungo come durata, delle cosiddette scosse di assestamento. È quel che sta accadendo nella politica italiana. Dopo il terremoto del marzo 2018 che ha visto crollare la tenuta dei partiti cardine delle seconda repubblica, abbiamo assistito a continue scosse di assestamento: il governo gialloverde, le elezioni europee, una tornata di amministrative che hanno ripetuto gli scossoni, poi le europee, poi la rottura di Salvini e la nascita di una nuova coalizione apparentemente poco immaginabile, il governo giallorosso, e infine (ma sarà davvero la fine?) la molto annunciata e poi messa improvvisamente in scena con un colpo di teatro uscita di Renzi dal PD.

Il tutto è nel segno di un riequilibrio o di una nuova dislocazione della geografia del territorio politico italiano. In parte, come sempre, si costruisce su macerie già evidenti (quelle del vecchio partito berlusconiano, ma anche dell’estrema sinistra), in parte presenta un panorama di edifici pericolanti che non si capisce bene se cadranno o verranno messi in sicurezza (il PD) e di nuovi edifici o edifici restaurati alla bisogna che non si sa se saranno gli elementi chiave del nuovo skyline (M5S, Lega).

È in questo contesto che va collocata l’operazione che Renzi ha finalmente messo in atto: finalmente, perché ci pensava da tempo, da quando si è convinto di poter essere il Macron italiano. Si tratta di una mossa ambigua, piena di piccole furberie e ammantata della grande retorica del cambiamento in cui il senatore di Rignano è indubbiamente maestro. Le piccole furberie sono quelle di un’operazione progettata a tavolino approfittando di un momento in cui può trovare solo deboli contrasti. Non a caso ha promosso un governo che si regge su una alleanza precaria, sicché anche con una forza non particolarmente rilevante lui diventa essenziale per farlo stare in piedi: se lo si attaccasse a fondo, verrebbe giù il palco. Dunque il PD può lamentarsi, ma deve ingoiare e soprattutto Di Maio, che ha sbandierato a dritta e a manca che mai si sarebbe seduto ad un tavolo con Renzi e la Boschi, adesso deve riconoscerlo come elemento identificato della compagine governativa, a meno che non voglia far cadere il governo (e si è visto che alla poltrona ci tiene anche lui).

Insomma Renzi, come si usa dire, torna a pieno titolo in partita, alla faccia di quelli che, parole sue ma non infondate, lo ritenevano un abusivo. Per fare che? Questa è la domanda a cui non sa dare risposta. Lasciamo stare i discorsoni sulle strategie future e le magnifiche sorti e progressive che attenderebbero il paese sotto la sua guida: con un governo frammentato fra varie componenti, ciascuna delle quali alla ricerca di piantare le sue bandierine in un quadro economico piuttosto fragile è improbabile che possa imporre scelte politiche di rilievo. Al tempo stesso colla sua “casa” (ha evitato il termine partito, che non è più di moda) non potrà fare subito politica elettorale, almeno non scoperta: l’ha escluso lui stesso almeno sino al 2023, e anche facendo la tara a questa data probabilmente per un anno.

La conseguenza è che se vuole costruire davvero un consenso significativo deve fare “comunicazione”, cioè sceneggiate: cose in cui è indubbiamente bravo, ma anche armi a doppio taglio da più punti di vista. Il primo è che, come si è visto con la vicenda della riforma costituzionale, è capace di affossare per vanagloria un’iniziativa che poteva essere invece interessante. Il secondo è che questo aprirà inevitabilmente uno scontro col PD che non potrà accettare passivamente di essere ridotto, come vorrebbe lui, al ruolo della bertinottiana Rifondazione Comunista.

La questione è scottante, perché al netto ridimensionamento del PD pensa anche Di Maio e una parte almeno del gruppo dirigente dei Cinque Stelle con la sfida a trasferire l’alleanza di governo a livello regionale purché si incentri su “liste civiche” da cui i partiti (cioè il PD) dovrebbe tenersi fuori. Se la proposta può anche funzionare per l’Umbria, dove il partito di Zingaretti è all’angolo per una pessima storia di gestione del potere da parte dei suoi, e dunque candidature civiche rappresentano uscite di sicurezza, non può funzionare altrove. Si tratterebbe infatti di svuotare la rilevanza politica del PD privandolo della sua classe politica, il che significa anche di quel tanto o poco di insediamento territoriale che detiene.

Chi guardi con un minimo di distacco il panorama che emerge dallo sciame sismico a cui abbiamo assistito, può ben capire che ci troviamo di fronte ad un passaggio quanto mai complesso. Le spinte a ricostruire davvero un equilibrio sono pesantemente oscurate dall’interesse di una miriade di gruppi politici (sostenuti dall’esterno ciascuno da qualche lobby interessata) a salvare le loro posizioni di potere o quantomeno di insediamento nelle varie articolazioni del sistema politico.

È questo che, purtroppo, favorisce la destra, specie quella estrema, che può puntare sui continui disequilibri per non dire sul caos che producono queste lotte di fazione, per presentarsi come la forza che con un colpo di autoritarismo rimetterà le cose a posto.