Rivedere il Patto di Stabilità, ma come?
Le dichiarazioni del presidente Mattarella e del ministro francese dell’economia sulla necessità di riformare il Patto di stabilità potrebbero aprire una pagina nuova nelle politiche economiche nell’area euro. Ma cos’è il Patto e come lo si può cambiare? Il Patto di Stabilità e Crescita nasce nel 1997 come completamento del Trattato di Maastricht per regolare le politiche fiscali dei paesi una volta entrati nell’euro. Alla base c’è il timore, concentrato nel Nord Europa, che eccessivi deficit pubblici di un paese (come l’Italia) facciano aumentare i tassi d’interesse in tutta l’area euro danneggiando anche gli stati fiscalmente virtuosi. Questa aspettativa si rivela però errata soprattutto a partire dal 2010 quando politiche fiscali poco rigorose fanno salire i tassi d’interesse del paese indisciplinato danneggiandolo mentre quelli degli stati virtuosi scendono traendo vantaggio dagli spread. È l’effetto della potente azione dei mercati finanziari che liquida la ragione prima delle regole fiscali contenute nel Patto. Nonostante questo il Patto è rivisto in modo restrittivo nel 2012 quando diventa Fiscal Compact tracciando percorsi di rientro a tappe forzate da debito pubblico eccessivo. L’Europa soffre questo irrigidimento essendo da poco entrata nel tunnel della crisi dei debiti sovrani scoppiata in Grecia nel 2011 e propagatasi poi a Spagna, Portogallo e Irlanda. Nel 2015 il Patto riceve una ulteriore rifinitura con nuove linee guida che tengono conto del ciclo economico e di altre variabili nel giudicare la congruità del deficit pubblico di un paese. La complessità delle procedure di valutazione delle politiche fiscali nazionali nonché la insostenibilità politica delle misure sanzionatorie, più simili a riparazioni di guerra che a correzioni di politiche fiscali tra paesi amici, rendono il Patto strumento scarsamente applicabile capace però di suscitare sentimenti antieuropei tra i cittadini. I risultati sono oltretutto deludenti visto che da un rapporto medio debito/Pil pari 0.79 nel 2009 passiamo a fine 2018 a 0.85 con accresciute divergenze tra paesi in eurolandia. Nel Patto troviamo inoltre incongruenze difficili da comprendere come quella che riguarda il FEIS (fondo europeo per gli investimenti strategici, come infrastrutture grandi progetti di ricerca etc.) al quale partecipano i paesi europei con un contributo che va ahimè ad accrescere il disavanzo pubblico. In presenza di spread questo significa che l’Italia prende a prestito ad un tasso di 140 punti superiore a quello tedesco e vede al contempo salire il proprio disavanzo pubblico per finanziare, ad esempio, un progetto di linea ferroviaria in Bassa Sassonia.
Insomma il Patto può essere rivisto e semplificato lasciando più liberta ai paesi. Ma come? Il primo punto concerne la definizione di debito pubblico lordo e netto. L’indicatore utilizzato finora è quello lordo per cui il nostro debito è, a fine 2018, 1,32 volte il Pil. Sotto il profilo finanziario la grandezza più corretta da usare sarebbe però quella netta ricavabile sottraendo a quella lorda le disponibilità liquide del tesoro, i prestiti a paesi euro, al fondo di stabilità europeo, al FMI e altre voci minori, come ci illumina la Relazione Annuale della Banca d’Italia. Con questa operazione il debito pubblico netto del bel paese scende a 1,25 volte il Pil. Non si tratta di un artificio finanziario tant’è che anche l’ufficio statistico di sua maestà britannica pubblica (e usa) questo indicatore. Considerare il debito netto non risolve i problemi finanziari del settore pubblico italiano ma introduce un’informazione più esatta che anche i mercati accetteranno se avallata da istituzioni europee. Le quali costituiscono in quanto a regole di disciplina finanziaria un faro che orienta gli operatori a livello globale. Il secondo punto concerne il coordinamento delle politiche fiscali tra i paesi di eurolandia che dovrebbe essere la base del Patto ma che in realtà è quasi sconosciuta visto che ci sono solo regole. I nuovi scenari del commercio mondiale dovrebbero convincere, in primis tedeschi e olandesi, che surplus esagerati dei conti con l’estero generano tensioni internazionali in particolare sulla sponda occidentale dell’Atlantico. Un surplus commerciale denota un eccesso di risparmio che può essere curato solo con maggiori investimenti e consumi sia pubblici che privati. Se l’eccessivo e prolungato surplus con l’estero della Germania provoca negli Usa una reazione protezionista questa danneggia tutta la Ue compresi i paesi incolpevoli. C’è quindi una falla nel Patto che dimentica di prescrivere politiche specifiche per riportare in equilibrio i conti con l’estero di paesi con eccessivi surplus mentre seguita a concentrarsi sui conti pubblici. Ai governi degli stati in forte surplus con l’estero e con conti pubblici in ordine il Patto deve chiedere un aumento della spesa pubblica o una diminuzione delle imposte per aggredire l’eccesso di risparmio. Questa si che è’ una forma di coordinamento perché indica politiche espansive per alcuni stati e più equilibrate per altri. Tutto questo consentirebbe all’Europa di contribuire alla riduzione degli squilibri globali e di assumere un ruolo internazionale purtroppo ancora invisibile, ma che il mondo richiede da tempo. Infine il Patto dovrebbe lasciare più libertà di movimento ai governi mantenendo comunque una attenta sorveglianza ma evitando onerose sanzioni. Oggi, molto di più di un quarto di secolo fa quando viene concepito, la concreta disciplina alle politiche fiscali viene, prima che dalle regole del Patto, dai mercati finanziari costituiti in primo luogo dai cittadini risparmiatori alle cui scelte e giudizio nessun paese può sfuggire. E poi nessun governo di eurolandia ha la possibilità di usare per coprire falle fiscali nazionali la leva monetaria controllata non da organismi nazionali ma da una istituzione federale, la BCE.
di Paolo Pombeni
di Gianpaolo Rossini
di Stefano Zan *