Renzi: partirà la fase due?
E’ possibile capire, al netto delle titolazioni dei giornali e dei siparietti più o meno canori dei vari uomini politici, se con l’approvazione dei fatidici articoli 1 e 2 del ddl Boschi Renzi è riuscito ad entrare nella fase due della sua avventura politica? In tempi di celebrazioni del centenario della prima guerra mondiale verrebbe da ricordare che allora si scoprì che la vecchia teoria della “battaglia risolutiva” non funzionava e infatti la guerra durò cinque lunghi anni. Forse qualcosa di simile, speriamo per un periodo meno lungo, è ipotizzabile per questa fase della politica italiana.
Renzi è stato indubbiamente abile a circondare ed a prendere alle spalle i suoi avversari, ma lo ha fatto commettendo a nostro avviso due errori: 1) ha contato troppo sul marasma trasformistico del senato attuale; 2) ha sottostimato le difficoltà di una legge di riforma che presenta alcune debolezze che non sono riducibili alle impennate della minoranza dem.
Il primo punto ha preso il volto del senatore Verdini e della sua invenzione di una pattuglia di renziani di complemento. Se è vero sia che il senatore toscano non è il mostro di Loch Ness sia che i voti in politica raramente puzzano, rimane il fatto che fare perno per una riforma costituzionale su un ambiguo gruppo trasformistico non è una scelta lungimirante. Tutt’altra cosa era in origine il patto del Nazareno, quando una forza di governo si accordava per un cambio costituzionale con un partito di opposizione che aveva retto per lungo tempo il governo del paese. Altra cosa la stessa alleanza con il Nuovo Centro-Destra, che era una scissione “ideologica” da quel ex partito di governo, scissione pensata nell’ottica di non buttare a mare il cambiamento di orizzonti che si era determinato nella politica italiana con il superamento dei vecchi schematismi della seconda repubblica. Non a caso in quella operazione non erano mancate delle intelligenze politiche, per quanto poi le difficoltà del NCD abbiano opacizzato e messo tra parentesi quella strategia iniziale.
Il gruppo messo in piedi da Verdini non si capisce invece quale progetto politico persegua se non quello di aggrapparsi al carro del vincitore, né annovera personalità in grado di dare qualche garanzia di prospettiva all’opinione pubblica. Che poi la minoranza dem abbia visto in questo scivolone della tattica renziana l’occasione buona per provare a cavarsi fuori dall’angolo in cui era finita è un altro paio di maniche. Il segretario-premier fa male a sottovalutare l’impatto negativo sull’opinione pubblica che hanno manovre tattiche troppo scopertamente opportunistiche, soprattutto quando ha a che fare con politici che non sanno godere in silenzio degli spazi che hanno trovato, ma che si mettono ad esibire in pubblico il lato peggiore delle loro manovre.
Qui viene in campo il secondo punto. La guerra sulla riforma non è finita con questa prima vittoria. Ci sono vari punti di debolezza nel testo e il più evidente è già emerso, denunciato anche da personaggi certo non sospettabili di antirenzismo come D’Alimonte e Violante. Si tratta dell’elezione del presidente della repubblica, con la futura composizione dell’assemblea nazionale che la mette sostanzialmente nelle mani della camera dei deputati eletta col premio di maggioranza alla lista vincitrice. Il che non è bello, ma sarebbe ancora il meno, non fosse che solo in astratto si può immaginare che quel tipo di maggioranza sia garantita come compatta: in politica la gratitudine verso chi ti ha fatto eleggere è un bene scarso. Dunque chiedere un corpo elettorale meno soggetto ad incertezze, ma soprattutto con regole meno propizie a colpi di mano è più che legittimo. Se la minoranza dem si fosse concentrata su questo e su altri punti deboli, anziché sul totem del tutto fantasioso della elettività diretta come strumento che mette davvero la scelta nelle mani dei cittadini avrebbe messo il governo in difficoltà.
Aggiungiamoci che c’è poi il pasticcio tecnico di come si potrà arrivare a formare il nuovo senato mettendo insieme un sistema che tenga conto del voto dei cittadini nel vincolare i consigli regionali nella scelta dei loro membri da inviare a palazzo Madama, con elezioni regionali che hanno scadenze diverse e con altri vincoli, tipo il fatto che alcuni membri devono essere sindaci (dunque qui l’abbinamento con le elezioni regionali non sarà facile). Naturalmente nulla è impossibile per gli strateghi delle riforme elettorali (purtroppo ne abbiamo già avute abbondanti prove), ma che i loro funambolismi garantiscano poi risultati gestibili è tutto da vedere. E anche qui un pasticcio scarsamente comprensibile avrà effetti negativi sulla partecipazione al referendum confermativo.
Quel che è certo è che sulle norme transitorie che ipotizzano i primi rudimenti del futuro percorso elettorale si scateneranno le lotte di parte senza esclusione di colpi (la vera legge elettorale per questioni di tempi è rinviata all’anno prossimo). Temiamo che su questo non ci sia da aspettarsi niente di buono.
Da bravo tattico Renzi ha gettato la palla più avanti e comincia a propagandare la strategia di intervento economico per l’anno prossimo come tema centrale, come a dire che se ci si attarda su quelle diatribe che abbiamo elencato (e, peggio, se su quelle si fa saltare il governo) va a rotoli qualsiasi possibilità di manovra economica che agganci la ripresina attuale e faccia ripartire l’economia. Si tratta indubbiamente di un argomento che ha la sua efficacia sull’opinione pubblica e sulle classi dirigenti di questo paese. Ci permettiamo di avanzare qualche dubbio sul fatto che possa mettere in riga una classe politica abituata più che altro a pensare al futuro delle proprie posizioni di potere ed a guardarsi allo specchio di taccuini giornalistici e telecamere.
di Paolo Pombeni
di Gabriele D'Ottavio
di Fulvio Cortese *