Quindici anni di campagna elettorale
Le "comunali" del 10 e 24 giugno sono state l'ennesimo capitolo di una perenne campagna elettorale (non finita: ci attendono le europee del 2019 e le regionali del 2018-2020) che ha riguardato (negli ultimi venti mesi) le regionali in Val d'Aosta, Molise, Friuli-Venezia Giulia, le politiche del 4 marzo 2018, le comunali del 2017, la consultazione popolare sull’autonomia del lombardo-veneto, il referendum costituzionale del dicembre 2016. Ma anche, risalendo nel tempo, il referendum del 2016 (con quorum mancato), le elezioni regionali del 2014-2016 e le comunali dello stesso periodo, le europee del 2014 e ancora le politiche del 2013 e le due “primarie” Pd del 2012-‘13. Senza contare le comunali del triennio 2011-2013, particolarmente favorevoli al centrosinistra, così come i referendum del 2011 che videro la vittoria del cosiddetto "fronte arancione". E ancora: le regionali del 2010, le europee del 2009, le politiche del 2008 e del 2006, le regionali (che il centrodestra perse quasi dovunque, tranne che in Lombardia e Veneto) del 2005, a loro volta precedute dalle primarie del Pd per Prodi nel 2004 e dalle europee dello stesso anno. A ben vedere, la mobilitazione dell'elettorato - a diversi livelli territoriali, con contesti sociali, politici ed economici molto diversi fra loro - dura da circa quindici anni. Un conflitto continuo che ha logorato e in parte dissolto poli forti del 43-48% dei voti (CDL e Unione), aperto la strada a nuove formazioni (M5S e, per pochi mesi, ai centristi di Monti), rivoluzionato i rapporti di forza nelle "famiglie politiche" tradizionali. Il pendolo del consenso ha oscillato a sinistra (2004-2006) poi a destra (2008-2010), poi di nuovo a sinistra (2011-2014, con l'eccezione delle politiche 2013, ma non delle amministrative di quell'anno). Poi si è entrati in un "limbo" (2015-2016) per arrivare infine alla vittoria dei partiti "antiestablishment" (o populisti, come ha detto in Parlamento il Presidente del Consiglio Conte) nel 2018. Quindici anni senza sosta, prima con Berlusconi e Prodi, poi ancora Berlusconi e il tecnico Monti, poi i tre governi di centrosinistra e l'attuale giallo-verde. Non è improprio affermare che le forze politiche e i governi - come si vede in modo ancor più frenetico e "accelerato" in questi ultimi mesi - abbiano risentito della mobilitazione generale permanente e di un ciclo elettorale ininterrotto, così come non è azzardato credere che - oltre alle mutazioni sociali ed economiche del Paese - il continuo appello al popolo e l'adattamento dell'azione di leader e partiti ai sondaggi e al "clima" abbiano reso più forte e consistente la volatilità del voto. La Seconda Repubblica ha sempre visto sfiduciare nelle urne, a fine legislatura, la maggioranza che aveva vinto le precedenti elezioni politiche: è accaduto nel 1994, 1996, 2001, 2006, 2008, 2013, 2018, a fronte di quasi mezzo secolo precedente durante il quale gli spostamenti fra i partiti erano minimi e l'alternativa impossibile (l'alternanza alla guida del governo è stata faticosamente realizzata solo nel periodo 1981-1992 e limitata a Pri, Dc e Psi). Ciò che, fra il 1992 e il 1994, permise agli elettori di rimescolarsi e riaggregarsi, fu il primo assaggio di un diverso approccio al voto e alla fedeltà partitica. L'ultimo quindicennio (2003-2018) ha gradualmente accentuato questo fenomeno, in particolare dal 2013 in poi (quando però erano già avvenuti fatti importanti come la scomparsa della sinistra comunista ed ecologista dal Parlamento nel 2008). Se si pensa che, ai tempi del primo progetto di riforma renziana del Senato, si ipotizzava che la Camera alta sarebbe stata composta praticamente solo da sindaci e rappresentanti regionali del Pd, mentre oggi parecchie di quelle amministrazioni sono passate al centrodestra (in minor parte al M5S, anche se Roma e Torino sono città molto importanti) si ha l'idea che la permeabilità e la mobilità sono ormai caratteristiche consolidate dell'elettorato. Non era mai accaduto che: 1) un partito passasse dal 4% al 17% (Lega 2018 su 2013), perchè i minori restavano tali anche quando ottenevano grossi progressi (Pli 1963: 7%; Msi 1972: 8,7%); 2) un partito guadagnasse il 15% (Pd fra il 2013 e il 2014) per poi perdere il 22% (Pd fra il 2014 e il 2018) nel giro di un lustro; 3) un soggetto politico appena nato arrivasse al 25% dei voti (M5S 2013; il precedente record era di Forza Italia, col 21%, nel fatidico 1994 che pose fine alla Prima Repubblica). Quel che un tempo era reputato eccezionale e irripetibile (il progresso della Dc nel 1948, pari a quello della Lega nel 2018; l'avanzata del Pci nel 1976, all'incirca uguale a quella del M5s nel 2018) sembra oggi non normale, ma prevedibile. Allo stato dei fatti, gli stessi sondaggi che attribuiscono alla Lega circa dieci punti percentuali in più rispetto a quattro mesi fa, sono plausibili. Secondo Demopolis, solo un elettore su tre dichiara di aver votato sempre lo stesso partito negli ultimi cinque anni. La politica può dunque seguire due strade: la prima, più agevole e immediata (ma alla lunga rischiosa) è quella di costruire sulla sabbia del consenso facile ed effimero; la seconda, che richiede politiche serie, idee e statisti difficili da trovare o da convincere ad impegnarsi, è quella di puntare su tempi più lunghi, su costruzioni più solide, destinate ad essere sottovalutate nel breve-medio termine ma che forse, un giorno, potranno essere punti di riferimento per gli elettori stanchi di inseguire il "last minute".
di Luca Tentoni
di Francesca Rigotti *
di Michele Iscra *