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8.3.15 Riforme istituzionali: fine del percorso.

Pasquale Pasquino * - 10.03.2015
Seduta parlamentare

La vita politica (in particolare quella italiana di oggi) non conosce equilibri stabili.

Circa un anno fa fu chiamato da Giorgio Napolitano alla guida del governo il nuovo segretario del PD Matteo Renzi, in larga parte a causa dello stallo delle riforme costituzionali al compimento delle quali il presidente della Repubblica aveva legato il rinnovo eccezionale del suo mandato. 

Un anno fa il quadro politico era caratterizzato dalla presenza di tre gruppi maggiori: le forze di centro e di sinistra che sostenevano il governo, l’opposizione di destra il cui leader era Silvio Berlusconi e il nuovo PC (il partito contro) di Grillo e C.

Le riforme costituzionali non possono essere imposte da una parte del parlamento (nonostante le norme sciatte della nostra costituzione, che dovrebbero essere cambiate, perché non configurano chiaramente una costituzione rigida). Basti pensare all’esperienza del 2001 quando la sinistra impose una riforma del rapporto stato/regioni che non ha avuto esito particolarmente felice. Norme costituzionali e para-costituzionali, come la legge elettorale devono, nella misura del possibile, essere concordate con l’opposizione. Delle due opposizioni al governo Renzi la sola disponibile a compromessi era quella di destra. Ed è quindi naturale che Renzi abbia cercato un accordo con il leader della destra per portare a buon termine il percorso delle riforme. A cominciare da quella elettorale, tenuto anche conto del fatto che la Corte Costituzionale aveva con la sentenza N° 1 del 2014 cancellato le legge precedente, invisa (almeno a parole) a praticamente tutte le forze politiche, che, pur denunciandola, non erano state capaci di modificarla.

La Consulta con la sua decisione aveva dato una spinta ulteriore al processo delle riforme, poiché è pretestuoso sostenere che la Corte abbia scritto la nuova legge elettorale, che resta materia di competenza parlamentare. I giudici guardiani della costituzione erano obbligati a produrre una pronuncia che lasciasse in piedi un qualche ipotetico meccanismo elettorale in attesa della nuova legge, poiché non si poteva lasciare il nostro sistema politico, una democrazia rappresentativa, privo della norma che permette di produrre il parlamento. Ma la “normativa di risulta”, vulgo il “consultellum” (come lo si chiama con il latino maccheronico dei giornali) non è una legge elettorale ordinaria scelta dal parlamento, ma una necessaria toppa provvisoria, per non lasciare sguarnito il sistema politico, in attesa appunto della nuova legge elettorale, che il parlamento deve approvare. 

L’accordo con la destra per le riforme istituzionali ha retto quasi fino alla fine del percorso. Si osservi, in parentesi, che il carattere non esplicito del cosiddetto patto del Nazareno, non ha nulla di sorprendente. La Costituzione americana venne scritta a Filadelfia in gran segreto (l’unico modo che permettere di giungere a compromessi, invisi solo agli estremisti) e poi discussa e ratificata da rappresentanti eletti dai cittadini. Lo stesso percorso è stato adottato dal governo Renzi, che ha discusso del progetto di riforma con i parlamentari e che ha scelto di sottoporre, in ogni caso, il progetto approvato dalle Camere ad un referendum popolare (andando al di là delle procedure richieste dall’articolo 138).

Ma un anno dopo l’insediamento del governo Renzi il quadro politico è mutato non poco.

La destra ed il suo leader sono in difficoltà. FI più che un partito personale di un capo solo, come lo era stato per lunghi anni, sembra una associazione fragile di gruppi diversi e ostili, alla ricerca di un autore e di un futuro, che per ora non si intravede. La Lega (ex Nord) sembra poter scalzare FI dalla posizione di gruppo dominante dell’opposizione di destra. E Matteo Salvini è oggi molto più popolare di Silvio Berlusconi. Ma anche lui, come il M5S, partner impossibile per il mutamento delle istituzioni.

In questa situazione e in assenza del grande architetto del processo riformatore, Giorgio Napolitano, il percorso delle riforme si fa più difficile. Il cammino si fa più stretto. Anche perché una parte dei rappresentanti del PD si è sempre opposta all’accordo con la destra e spera oggi di poter imprimere a quel processo un arresto e l’avvio, forse, su una nuova strada.

Si potrebbero discutere le proposte degli oppositori interni al PD che rischiano di bloccare le riforme. Dall’avversione ad un certo numero di candidature bloccate (ma si dovrebbe dire come si organizzano le candidature, perché queste non sono e possono essere libere e spontanee – si rifletta sulle recenti primarie in Campania!) alla opposizione al meccanismo di nomina dei nuovi senatori. Ma nei sistemi parlamentari la prima questione è quella delle maggioranze che approvano leggi e riforme. Sottrarsi a questo tema significa confondere il dibattito accademico con quello politico, il quale a chi scrive – accademico di vocazione e di professione – sembra più importante del primo. Non c’è sostanza che tenga in politica se non c’è la volontà delle forze politiche di trasformare in norme di diritto le idee che sostengono quelle norme. La politica, piaccia o meno, è il regno delle cose possibili, ed in democrazia il possibile è quello che viene scelto dalle maggioranza, semplici o qualificate, che la costituzione detta in vista della modifica dello status quo (da noi per la legge elettorale la maggioranza assoluta e per le riforme costituzionali le norme dell’articolo 138 – generosamente interpretate dal governo a favore dei cittadini).

Se si va dunque alla sostanza del processo politico di una democrazia parlamentare come la nostra, risulta chiaro che esiste, nel migliore dei casi, un tentativo della opposizione interna al PD di portare a termine le riforme modificando la struttura delle alleanze, passando da un accordo con la destra quasi-moderata (il patto del Nazareno) ad una alleanza con la sinistra radicale, escludendo tutta la destra e forse anche il centro dal processo riformatore.

Se questo progetto fosse possibile, se cioè vi fossero i numeri, che altrimenti si tratta tuttalpiù di una u-topia (una cosa che non esiste), ed è molto verosimile che senza il centro i numeri non ci siano; se tale progetto fosse possibile, sarebbe a mio avviso del tutto sbagliato: non si può imporre al paese una riforma di una parte sola, non si può scegliere un’ala estrema dello spettro politico per imporre un nuovo ordine costituzionale all’altra parte (quella moderata e non di sinistra) della società. E’ stato già fatto dalla sinistra nel 2001 e dalla destra nel 2004, con i risultati che conosciamo.

L’opposizione interna al PD deve dire come si approvano le riforme che vogliono loro, altrimenti il loro contributo si riduce a “rumore”. A meno che non vogliano, ma non è questo che dicono, bloccare il processo. Che a questo punto, se il treno deraglia, sarebbe inevitabilmente procrastinato per tempi imprevedibili.

O decidono una alleanza negativa con Brunetta e Grillo, con l’effetto di mantenere fermo lo statu quo e magari reintrodurre il sistema elettorale proporzionale, che ricreerà nuovi Bertinotti e nuovi Mastella, che naturalmente fioriscono in quel sistema. Oppure sostengano il governo e permettano di mantenere l’accordo con il centro ed almeno con una parte di FI. Piuttosto che gettarsi nelle braccia di Vendola.

La ostinazione di una minoranza che vorrebbe imporre la propria volontà come se fosse la sanior pars non è quello che il paese si merita.

 

 

 

 

* Distinguished Professor in Politics and Law, at New York University