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24 aprile 2024
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Per una “terza” Repubblica anche alla Farnesina?

Michele Marchi - 22.07.2014
Federica Mogherini

Nelle settimane in cui il ministro degli Affari Esteri Federica Mogherini è il candidato italiano alla poltrona di Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, può essere interessante riflettere proprio sull’evoluzione del ruolo del titolare della Farnesina nell’Italia della cosiddetta “seconda” e anche nei primi passi di quella che molti oramai definiscono “terza” Repubblica.

 

Alcuni dati oggettivi


Prima di tutto qualche dato oggettivo. Nei venti anni tra il 1994 e il 2014 si sono alternati al ministero degli Affari Esteri dieci differenti titolari del dicastero. La proporzione è più o meno la stessa, se si osserva la cosiddetta “prima” Repubblica (1948-1994). In undici legislature, per un totale di 46 anni, avevamo avuto 22 differenti titolari. Delle tre legislature che nel “ventennio” 1994-2014 sono giunte a scadenza naturale (XIII, XIV e XVI) sono due gli elementi da sottolineare. Nel periodo 1996-2001, quello dell’Ulivo prodiano poi sostituito da D’Alema, si deve rilevare la più lunga permanenza di un ministro degli Esteri nella storia dell’Italia repubblicana. Lamberto Dini ha guidato la Farnesina dal 1996 al 2001, sotto tre differenti Presidenti del Consiglio. Proprio il profilo “tecnico” di Dini, ma non di “tecnico” del mondo della diplomazia (dal 1979 al 1994 Dini è direttore generale di Banca Italia), necessita di un surplus di riflessione che si affronterà tra poco. Per il momento è sufficiente sottolineare la continuità, nonostante i “sussulti” della coalizione di centro-sinistra. L’altro dato è specularmente opposto. La XIV legislatura (2001-2006) è quella dominata dal II governo Berlusconi, ad oggi il più longevo della storia repubblicana. Alla tenuta dell’esecutivo (quasi quattro anni) fa da contraltare un certo caos alla Farnesina. Tra il giugno del 2001 e l’aprile del 2005 si avvicendano infatti quattro titolari. Dopo i primi passi con il ministro di “garanzia” Renato Ruggiero, sono giunti i lunghi mesi dell’interim berlusconiano, poi l’arrivo di Franco Frattini e infine la nomina “politica” di Gianfranco Fini a partire dal novembre 2004.

 

Centralità del premier e sua gestione della politica estera


Proprio gli anni della “diplomazia personale” di Berlusconi, in particolare con i tre grandi di quella stagione (Blair-Putin-Bush), sono un buon punto di partenza per valutare la dimensione sistemica della questione. Il ventennio 1994-2014 è dominato dal tentativo, magari maldestro ma costante, di razionalizzazione del parlamentarismo italiano così come emerso dalla costituzione del 1948. A questo sforzo nell’adeguare il nostro sistema a quello delle principali democrazie continentali, si è poi aggiunta una più diffusa personalizzazione della politica. Questi due elementi calati nel contesto italiano hanno finito per rendere i presidenti del Consiglio i veri titolari del ruolo non solo di indirizzo ma anche di attuazione delle più importanti scelte di politica estera. Così è stato nel biennio prodiano 1996-98, con l’inquilino di Palazzo Chigi impegnato da un lato nel garantire l’ingresso dell’Italia nella moneta unica e dall’altro nel riaccreditare l’immagine del Paese all’estero, non poco appannata dall’ondata giudiziaria di Tangentopoli. Che dire del tanto contestato governo D’Alema se non che l’attivismo e il decisionismo si sono in larga parte concretizzati nel ruolo svolto dal Presidente del Consiglio nel delicato dossier della questione balcanica e nello specifico della guerra del Kosovo? Per chiudere poi con il già citato Berlusconi della fase 2001-2006, la cosiddetta “diplomazia della pacca sulle spalle” non è stata solo un elemento mediatico. I due principali assi della diplomazia italiana di quel quinquennio, il rapporto privilegiato con la Russia di Putin e l’accentuazione di un filo-americanismo non propriamente in linea con l’euro-atlantismo italiano del post ’48, si sono concretizzati in prese di posizione tutte gestite in prima persona proprio da Berlusconi: il vertice di Pratica di Mare del 2002 e la partecipazione italiana alla missione in Iraq del 2003 sono gli esempi più evidenti.

 

Un tecnico o un politico alla guida della Farnesina?


Seguendo il filo del ragionamento sino a qui svolto, se ne dovrebbe dedurre che, dal momento che la politica estera nelle sue linee fondamentali è gestita da Palazzo Chigi, il titolare della Farnesina non dovrebbe essere altro che un tecnico, una figura in grado di far funzionare la complicata macchina diplomatica. Alcune conferme in questa direzione non mancano e si possono anche dedurre da un rapido confronto tra cosiddette “prima” e “seconda” Repubblica. Nel ventennio 1994-2014 si possono contare solo due ministri propriamente “politici” e per un totale di meno di quattro anni di guida del ministero degli Affari Esteri. Si tratta di D’Alema (governo Prodi 2006-2008) e di Fini (un anno e mezzo tra 2004 e 2006). Al contrario nel periodo 1948-1994, in epoca di Presidente del Consiglio ancora da intendersi come primus inter pares, se si escludono gli “anni Sforza” (1948-51) si può affermare che tutti i grandi leader “politici” democristiani hanno svolto lunghi ed incisivi anni di permanenza alla Farnesina. Questo vale per il neoatlantismo fanfaniano, per i delicati anni morotei (nel periodo così cruciale per gli equilibri europei e mondiali 1968-1972) e per i lunghi anni di Andreotti (dal 1983 per quasi un decennio, considerato che dal 1989 al 1992 è stato sostituito da De Michelis per passare alla guida del governo). Unica eccezione, in questo quadro, è l’assenza del leader “politico” per eccellenza degli anni Ottanta,  cioè Craxi, che però non a caso cercò nel periodo 1983-87 una leaderizzazione della presidenza del Consiglio con chiare ricadute nella gestione della politica estera. Anche in questo si può valutare la sua “modernità”.

 

Ancora due riflessioni


Il governo Monti del 2011 ha visto l’arrivo alla guida della Farnesina di un diplomatico di carriera, Terzi di Sant’Agata. Nel momento in cui il tecnico stimato a livello internazionale è giunto a salvare il Paese da un quasi certo tracollo economico-finanziario e di immagine, ha scelto il profilo più tecnico e meno politico per guidare gli Esteri, dal momento che spettava a lui la garanzia “politica”. Peraltro proprio la crisi dell’area euro ha finito per accentuare la gestione intergovernativa a Bruxelles e di conseguenza rendere la politica europea appannaggio esclusivo dell’inquilino di Palazzo Chigi.

Il secondo elemento da considerare è il “fattore Quirinale”. È evidente quanto il ruolo della presidenza della Repubblica sia stato e sia ancora determinante nel tentativo di razionalizzare la confusa transizione italiana dell’ultimo ventennio. Nello specifico le presidenze Ciampi e la lunga fase di presidenza Napolitano hanno svolto un doppio ruolo di “garanzia attiva”. Da un lato contribuendo ad offrire un’immagine di continuità nelle scelte di politica estera del Paese, prima di tutto sul fronte dell’europeismo. In secondo luogo e parallelamente si sono presentati alle diplomazie estere (ma anche agli investitori internazionali) come i custodi della tenuta di un sistema travolto da un’ondata giudiziaria senza precedenti nel panorama politico occidentale. Il cantiere aperto delle inchieste e quello parallelo delle riforme hanno trovato nel Quirinale un custode preziosissimo innanzitutto sul fronte della proiezione di politica estera del Paese.

La nuova coppia Renzi-Mogherini come si colloca in questa evoluzione? Pare essere in linea con lo schema renziano di innovazione ma nella continuità. La politica estera resta nelle mani dell’inquilino di Palazzo Chigi (continuità dunque), che sceglie però di mandare agli esteri un profilo tutto “politico” (discontinuità?).  Mogherini  entra all’età di 18 anni nella direzione nazionale Ds, a 20 comincia ad occuparsi di politica internazionale per il partito e tesse i suoi rapporti con leader giovanili del socialismo europeo. Eletta per la prima volta nel 2008, è membro della commissione Difesa (non esteri), poi accanto a Franceschini nel PD (area pari opportunità), poi nella segreteria renziana con in carico il dossier Europa. Insomma di certo non un profilo “tecnico”, ma allo stesso tempo di un peso specifico “politicamente” non prorompente…

A questo punto interessante non sarà più di tanto vedere se Mogherini in autunno si sposterà a Bruxelles. Peraltro considerati gli “anni Ashton”, le sue possibilità di fare bene sono certe. Molto più rilevante sarà valutare per chi opterà Renzi-piè-veloce in caso di sostituzione. Tecnico o politico? Discontinuità o continuità? Cambierà o no “verso”?