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Partiti da ridefinire

Paolo Pombeni - 05.10.2022
Meloni FdI

Nell’attesa di vedere se e come la maggioranza di destra-centro che ha vinto le elezioni riuscirà a mettere in piedi un governo all’altezza delle sfide che ci troviamo davanti, a tenere banco è, o dovrebbe essere la necessità più o meno di tutti i partiti di ridefinirsi. Nessuno, infatti, è uscito dalla prova elettorale con un accreditamento della fisionomia con cui si era presentato ai votanti.

Persino il partito con il risultato più forte, cioè FdI, può dire di essere stato oggetto di una adesione del tutto convinta a quella che era la sua fisionomia, perché appare sempre più evidente che a vincere è stata Giorgia Meloni, cioè la leader che è riuscita ad accreditarsi come personalmente in grado di guidare il paese nelle difficili contingenze che abbiamo davanti. Effettivamente lei stessa ne è consapevole, tanto che ha impostato tutta la sua azione in questa fase di transizione obbligata come guidata da prudenza, da assenza di retoriche sopra le righe, da ricerca di trovare legittimazione presso il più ampio spettro possibile di opinione pubblica. Questo però pone in questione il suo partito, che non è affatto chiaro se sia disposto a mettersi sostanzialmente su questa nuova via e sia attrezzato per farlo. Non se ne parla ed è comprensibile perché al momento i problemi che premono sono quelli della formazione del governo, ma il problema non potrà essere evitato a lungo.

Più chiaramente la situazione si propone per la Lega e per FdI. Nel primo caso è abbastanza evidente la sconfitta della scelta demagogico-avventurista di Salvini, che se si è garantito un bel po’ di pretoriani in parlamento (ma si sa che nei cambi di equilibrio sono i primi che tradiscono …), ma si è ben guardato dal proporre una riconsiderazione del ruolo che può ricoprire il suo partito (e lui stesso). Quanto a Berlusconi si tratta ormai di un fantasma. Non ha nulla da proporre a Forza Italia se non chiedere posti nel futuro governo, per lo più per piazzarci qualcuna o qualcuno del suo cerchio che tanto magico proprio non è più.

Ovviamente la forza politica coi problemi maggiori è il PD. La demenziale legge elettorale con cui abbiamo votato ha favorito le oligarchie di partito, sia come formazione delle liste sia come distribuzione a capocchia di un buon numero di candidati. Il risultato è stato molto modesto, anche se non proprio così fallimentare come alcuni vogliono descriverlo: quel che è andato molto male non è la quantità di consenso ricevuto, ma la qualità di un gruppo parlamentare che non si capisce quale identità possa proporre. Per il momento il risultato è solo un acuirsi della lotta interna alle oligarchie del partito, lotta in cui si inseriscono le numerose centrali mediatiche, le quali avevano scommesso su quel campo e che continuano a cercare di manovrarlo dall’esterno.

Dubitiamo molto che questa impasse possa essere risolta con un congresso che esalterà solo le lotte fra le oligarchie, mentre renderà piuttosto difficile la gestione della fase di opposizione che il partito parlamentare si troverà a dover esercitare fra poche settimane. Ed è in questo primo lavoro, reso difficile dal fatto che probabilmente più che altro ci saranno da fare scelte obbligate, che pensiamo sia difficile ricostruire una affidabilità che si è perduta per rincorrere un radical-sinistrismo alla moda.

Dei Cinque Stelle c’è poco da dire. Esaltati dal fatto che sono andati molto meglio di quanto fosse pronosticato (il che ha fatto loro dimenticare che hanno perso per strada la metà dei voti raccolti nel 2018), sono rimasti il partito degli slogan al vento. Vedremo come pensano di mantenere il consenso non certo modesto che è rimasto loro dato che non saranno più al governo: quando fai assistenzialismo di vario tipo, va bene se hai in mano le chiavi governative per distribuire, difficile farlo dall’opposizione dove di queste chiavi non disponi.

A questo punto bisogna dire che c’è una certa delusione nei confronti del partito del duo Calenda-Renzi. Hanno avuto un buon successo, anche se non hanno raggiunto le vette iperboliche che avevano annunciato, ma soprattutto sembra dai primi sondaggi postelettorali che abbiano ancora possibilità espansive. Adesso però non possono continuare semplicemente a fare i critici del PD, scommettendo sul suo dissolvimento, cosa che, sia detto per inciso, non è che convenga neppure a loro, perché c’è bisogno di stabilizzare l’area dei progressisti non di aumentare la confusione in quel campo se si vogliono mantenere aperti spazi competitivi con la destra conservatrice.

Il rinvio, peraltro più di Renzi che di Calenda, al partito di Macron, Renew Europe, non ci sembra una carta sufficiente per consolidare la presa su una quota della società che si è detta interessata a sostenerli per avere una forza nuova che provasse a creare un progetto per il futuro del paese e non un ufficio di collocamento per gente che non sa vivere se non di politica. Ora quel progetto ancora non si vede, perché tali non si possono considerare le buone intenzioni, così come non si capisce ancora chi siano le formazioni e le persone che i due leader vogliono chiamare ad elaborare una presenza radicata nella vita sociale ed economica dell’Italia.

In conclusione, siamo di fronte all’ennesima scossa di terremoto politico che ha distrutto il tessuto del nostro sistema senza che si veda ancora come questo si assesterà. Ma è proprio di una ridefinizione complessiva del sistema che abbiamo bisogno, perché vorremmo avere elezioni, certamente con una legge decente che le organizzi, attraverso le quali si instauri una sana dialettica politica e non il caravanserraglio delle lotte di oligarchi e fazioni che ci hanno portato all’impasse attuale.