Obbligati all’accordo, refrattari all’intesa
Dunque un’altra puntata della telenovela sulla manovra sembra essersi conclusa. Rinvia alla prossima puntata, questa volta invece che con la formula “salvo intese” con quella di rimandare il perfezionamento delle norme al passaggio parlamentare: una scelta pericolosa, visto come vanno le cose alle Camere, ma soprattutto sottoposta alla valutazione di quel che uscirà domenica 27 ottobre dalle urne dell’Umbria.
Perché il vero nodo della questione è tutto lì. È in quell’esito che si verificheranno più elementi: se tiene la coalizione PD-M5S o se Salvini straborda; come i Cinque Stelle usciranno dalla partita, perché se non ne uscissero bene l’era Di Maio sarebbe al tramonto; come il PD dimostrerà o meno di avere superato la sua doppia crisi, quella di lungo corso dopo il marzo 2018 e quella subita a breve con la scissione di Renzi. Il dibattito parlamentare sul passaggio della legge di bilancio si svolgerà avendo davanti i risultati dell’Umbria che proietteranno la loro ombra sul confronto previsto in gennaio in Emilia Romagna e Calabria: inutile girarci intorno.
Per ora la maggioranza è obbligata a trovare l’accordo, perché una crisi di governo in piena sessione di bilancio è impensabile. Inoltre annunciarla di fatto alla vigilia della prova del 27 ottobre sarebbe suicida sia per M5S che per PD. Tuttavia il problema è che una volta di più si tratta di un accordo senza intesa: alla maggioranza manca sempre più platealmente quel idem sentire de re publica che solo dà consistenza ai governi.
Gli osservatori notano che il governo Conte II può godere di un atteggiamento benevolo da parte di Bruxelles, ma si tratta di capire se ciò sia dovuto ad una contingenza, al bon ton che si usa quando nessuno fa la voce grossa, o ad una vera volontà di aiutare l’Italia. La contingenza è quella di una Commissione che non attraversa un momento felice: al momento va avanti la vecchia, perché la nuova non riesce a decollare visto l’inciampo che è arrivato dalla bocciatura da parte del parlamento europeo di alcuni candidati commissari. Difficile in queste condizioni fare più che un po’ di burocrazia.
Il bon ton è un riconoscimento del migliore clima che può esserci a trattare con politici che si sono lasciati alle spalle i bullismi antieuropei e che anzi si sono guadagnati qualche amicizia (pure nei limiti che ciò ha in politica): Conte nei vertici non ha mai creato noie, Gualtieri è un personaggio che si è costruito una carriera nei meandri del parlamento europeo.
Che ci sia una vera volontà di aiutare l’Italia è tutto da vedere. Draghi sta lasciando la BCE per fine mandato e i cosiddetti falchi del rigore rialzano la testa. Chi gli succede, Christine Lagarde, non si sa cosa davvero pensi della congiuntura economica internazionale, dove come sempre è sul tappeto la questione se convenga rischiare tutto quel che si può per evitare una recessione generalizzata, o se sia meglio lasciare che chi è forte si blindi e peggio per gli altri (naturalmente si finge che una tale scelta li costringerà a ritrovare la via dell’equilibrio economico).
Di questo complicato panorama quanto sono consapevoli i capi dei partiti della maggioranza? Poco, sembrerebbe di poter dire. È abbastanza buffo che quello dei Cinque Stelle sia contemporaneamente ministro degli esteri, cioè che sieda in una posizione che dovrebbe dargli molti strumenti per avere il polso della situazione europea e internazionale. Ma lui, come tutti i suoi pari grado, è concentrato su un solo obiettivo: rincorrere il consenso elettorale che teme gli stia scivolando via dalle mani. In questo gioco infernale ogni bandierina che si pianta è una trappola, perché ogni intemerata su qualche punto, proclamata a pro di telecamere, media, social e quant’altro, si trasforma in una linea del Piave da cui non si può tornare indietro. Il risultato è che si deve trovare una soluzione pasticciata.
Quella della mezza marcia indietro è una pessima scelta politica. Dire che il POS ai commercianti e quant’altri si farà, ma da luglio, così le manette agli evasori, ecc., serve a dare un messaggio ambiguo a chi si vorrebbe si mettesse in riga (c’è tempo, nel frattempo può succede qualcosa), ad incentivare che si abbia un picco di evasione nei primi sei mesi dell’anno per arraffare finché si è in tempo, mentre lascia all’opposizione tutto lo spazio per continuare nella sua propaganda contro lo stato sanguisuga. Senza contare che lo spazio aperto alla contrattazione parlamentare darà respiro a tutte le manovre lobbistiche immaginabili, dunque anche a favore delle manovre dell’opposizione.
Salvini pregusta quello che gli appare come un vento più che favorevole. Berlusconi si è arreso alla decadenza del suo partito: non sappiamo se lo abbia fatto in cambio di promesse sulla salvaguardia del suo ruolo personale (se davvero c’è stato un impegno a candidarlo alla presidenza della repubblica, è una promessa più che azzardata), o se più banalmente non abbia preso atto della realtà. Le inquietudini del paese sono in crescita e questo favorisce la demagogia del nuovo leghismo, che peraltro ora cerca di presentarsi come un po’ meno estremista e più interessato a promuovere una specie di nuovo partito della nazione.
Certo la partita dell’equilibrio politico è tutta da giocare, ma per una coalizione di governo in crisi di idee forti che possano incentivare la ripresa nel paese di una volontà di riscossa si giocherà in condizioni che si vanno facendo sempre più difficili.
di Chiara Sità * e Paola Ricchiardi **
di Stefano Zan *
di Paolo Pombeni