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Se si riforma l’affido sull’onda di Bibbiano

Chiara Sità * e Paola Ricchiardi ** - 23.10.2019
Legge affido

Nel mese di luglio è stata presentata alla Camera una proposta di legge di riforma dell’affido (l. 2047, prima firmataria Stefania Ascari, avvocato, M5S), definita “necessaria e urgente” alla luce di due scandali: quello documentato dall’inchiesta giornalistica “Veleno” su allontanamenti di minori dalle loro famiglie effettuati nel modenese negli anni 1997-98 e rivelatisi infondati, e l’inchiesta giudiziaria in corso “Angeli e Demoni”, descritta come la scoperta di “un gravissimo caso di presunto sfruttamento illecito del sistema degli affidamenti di minori, anche al fine di arricchimenti personali, noto come « caso Bibbiano »”.

La proposta di legge riprende gli articoli di giornale che hanno accompagnato le due vicende e fa riferimento a “impressionanti” dati statistici nazionali sui collocamenti di minori all’esterno della famiglia. Proviamo qui a verificare punto per punto i problemi posti al cuore del testo di legge come sintomi di un sistema che non funziona.

Innanzitutto è utile analizzare i dati statistici definiti “impressionanti” sui collocamenti esterni alla famiglia, che proverebbero la leggerezza con cui vengono attuati. Il testo parla di 40.000 minori fuori famiglia, quando in realtà sono 26.600 tra affidamento familiare e collocamento in struttura. L’Italia allontana i minori dalla famiglia di origine molto meno di altri Paesi europei (il 3 per mille sul totale della popolazione minorenne, contro il 9‰ della Francia, l’8‰ della Germania, il 6‰ del Regno Unito). Questo dato può avere spiegazioni differenti: 1) L’Italia ha famiglie meno in difficoltà di Francia, Germania e Inghilterra (ipotesi poco probabile e non suffragata da dati); 2) In Italia si lavora molto di più con le famiglie d’origine (ipotesi non sostenibile, anche a fronte della frequenza con cui l’Italia viene multata dall’Europa su tale argomento); 3) In Italia si allontanano solo minori per i quali la situazione è già molto compromessa, a volte in maniera tardiva. Quest’ultima ipotesi spiegherebbe perché il 62% dei minori in affidamento permangono in tale condizione per lungo tempo: se la situazione è molto compromessa, il rientro in famiglia è certamente più complesso.

In secondo luogo, la legge asserisce in premessa che in un grande numero di casi l’allontanamento è determinato dalla situazione di indigenza economica della famiglia, asserzione che nuovamente non trova conferma nei dati nazionali. La prima causa del provvedimento di allontanamento è la grave incapacità educativa genitoriale (24%). A questa seguono trascuratezza materiale e affettiva, violenza domestica, problemi di dipendenza di uno o entrambi i genitori, elevata conflittualità familiare, problemi sanitari, psichici o psichiatrici, dei genitori. Il più delle volte, alcune di queste problematiche sono compresenti e si accompagnano ad altre condizioni di difficoltà, soprattutto economica e lavorativa, a cui i servizi cercano di rispondere con azioni su vari livelli che prevedono il collocamento esterno come ultima ipotesi, da attuarsi in situazioni di grave pregiudizio per la crescita del bambino. Se volessimo affrontare una distorsione del sistema di tutela, probabilmente dovremmo preoccuparci di un altro dato: in Italia, le famiglie straniere hanno una probabilità tre volte maggiore di essere colpite da provvedimenti di allontanamento dei figli rispetto a quelle italiane. Dal momento che non è possibile affermare che non essere italiani implichi una minore capacità genitoriale, questo dato dovrebbe condurre a riflettere su come servizi e tribunali si approcciano alle famiglie straniere in difficoltà.

La legge accusa poi i servizi di fare valutazioni del rischio per il bambino scarsamente attendibili, “effettuate sulla base di indicatori presuntivi” e non oggettivi. Nel mettere in dubbio la fondatezza delle segnalazioni di violenze e abusi, il testo riecheggia sinistramente la logica del ddl Pillon, che è stato giustamente criticato per non tutelare a sufficienza le donne che denunciano la violenza del partner verso di loro e verso i figli, e ne ripropone le principali storture: mettere in stato di accusa le vittime e chi presta loro ascolto (rendendo più difficile l’emersione della violenza) e pretendere di basare le misure di protezione su soli accertamenti in flagranza o in presenza di segni fisici di maltrattamento.

Inoltre, si afferma nella proposta di legge che solo un “numero sparuto” di collocamenti viene effettuato nella rete parentale. Anche questa affermazione è smentita, sia dalla normativa sia dai dati. La legge italiana tutela i legami familiari al punto che richiede che l’affido intrafamiliare presso parenti fino al quarto grado sia l’opzione prioritaria. Questo tipo di collocamento riguarda infatti un quarto dei collocamenti totali. Il problema, semmai, è che i parenti affidatari spesso si trovano ad essere poco sostenuti dal punto di vista economico, psicologico e sociale.

Infine, la legge propone una visione della tutela dei bambini come un giro di affari in cui operatori, strutture di accoglienza e famiglie affidatarie ottengono profitti e vantaggi. Il Tribunale per i minorenni di Bologna ha già smontato l’ipotesi di un “sistema Bibbiano” verificando la legittimità di tutte le richieste pervenute nel periodo sotto indagine. Occorre dire, inoltre, che l’Italia è uno dei pochi Paesi che conta sul volontariato familiare per l’affido, pratica per cui gli affidatari ricevono soltanto una quota per il rimborso delle spese del bambino. Appare strano doverlo ricordare, ma affido e accoglienza dei minori richiedono una spesa pubblica che dovrebbe essere anche più consistente di quella attuale, perché laddove, per qualsiasi ragione, delle mamme e dei papà non possono occuparsi della crescita e del benessere dei loro bambini, la loro educazione e mantenimento hanno necessariamente un costo per la collettività. A meno che non si pensi ad un sistema in cui nessun bambino viene più allontanato dalla sua famiglia d’origine, qualunque siano le condizioni in cui cresce: ma in questo caso i costi per la collettività visibili a distanza di tempo sarebbero ancora maggiori.

Questa analisi della proposta di legge 2047 conduce, pertanto, a constatare la grande fragilità di questa idea di riforma del sistema di tutela, basata su una lettura poco informata dei dati, su un’inchiesta giornalistica su casi di 20 anni fa e sull’allarme generato da un’indagine tuttora in corso e il cui esito non è noto.

 

 

 

 

* Docente all’Università di Verona

** Docente all’Università di Torino