Il futuro della mediazione culturale e politica. Note a margine di “Un millimetro in là” di Zanchini e Sinibaldi
Sono i brutti libri ad avere bisogno di pubblicità. Quelli che spuntano come pandori a ogni festa comandata, o le “proposte da ombrellone” neanche fossero ghiaccioli alla menta. Insomma i libri in cui il faccione “secondaseratesco” del prolifico autore eclissa il tema occasionale, sia esso l’infedeltà degli uomini di stato, la medicina forense o le ridotte vinicolo-alimentari del Belpaese. Poi invece ci sono libri di cui hai voglia di parlare anche soltanto per assecondare l’efficace passaparola che te li ha fatti conoscere, o per dare torto a chi ritiene che nominare la “cultura” in un titolo sia la scorciatoia più sicura per il macero. O semplicemente perché si sottraggono alla sindrome da scoop compulsivo per prendersi ed esigere dal lettore il tempo necessario a metabolizzarli. Ecco almeno tre ottime ragioni per gustarsi “Un millimetro in là. Intervista sulla cultura” di Giorgio Zanchini e Marino Sinibaldi (direttore di Radio3). Un dialogo che si snoda senza un canovaccio rigoroso, privo di stucchevole accondiscendenza nei confronti del lettore; il quale al contrario è implicitamente esortato a fermarsi, ad andare a caccia dei riferimenti bibliografici a volte appena accennati, a farsi un’opinione delle interpretazioni proposte.
La cultura del futuro
Sbarazzatisi in fretta del falso problema di definire universalmente la Cultura, i due interlocutori si concentrano piuttosto sulle dinamiche d’interazione tra quest’ultima e le tante sfere dell’agire sociale: la comunicazione, l’arte, il potere, la partecipazione. E sorprendentemente a emergere sono soprattutto letture positive e propositive dei mutamenti in atto, delle possibilità aperte dai nuovi media di “parlare al mondo senza avere pregiudizialmente il ruolo e il mandato sociale, la professione e la funzione” cuciti addosso. O per tagliare corto, di realizzare l’antica utopia di “fare il pescatore di mattina e il filoso nel pomeriggio”. Il culmine è raggiunto quando Sinibaldi saluta come una liberazione la prospettiva futuribile di enormi memorie virtuali in cui riporre le nozioni accessibili a tutti, per lasciar libere le teste di confrontarsi sulle interpretazioni e sul dialogo. Affermazioni ad alto tasso di provocazione, ma che sono benvenute a contrastare il misto di vaga nostalgia e paura perpetua che in questo paese accompagna ogni discorso su internet e le sue potenzialità. Anche perché in definitiva non è certo nuova l’equivalenza che il libro propone al lettore: la cultura deve continuare a significare emancipazione e condivisione. Il mutamento degli strumenti utilizzati è un aspetto sicuramente rilevante, ma non decisivo per sé.
Dov’è la politica in tutto questo? Ovunque verrebbe da rispondere, che gli autori lo volessero o meno. Come erano politiche le ancorché vaghe intenzioni con cui la “generazione del ‘68” cercava di costruire una cultura propria in opposizione a quella dominante. Il racconto che Sinibaldi fa della sua esperienza diretta restituisce a quella vicenda un respiro collettivo e autentico, scevro da riletture estetizzanti ma anche da tentazioni di un’abiura incondizionata in ragione delle inevitabili ingenuità di allora. È invece con orgoglio che Sinibaldi rivendica il desiderio dell’epoca di leggere in modo poco sistematico e molto onnivoro, con l’obiettivo di conoscere e capire un mondo per il quale i vecchi parametri erano insoddisfacenti. Questo lo porta ad azzardare che, se quella generazione non ha fatto “la rivoluzione” né aveva un’idea chiara di cosa questo implicasse, quantomeno si sia servita della leva della cultura per “spostare l’asse della storia” almeno “di un millimetro in là”.
Mediatori sotto accusa
Ancora più provocatorio in chiave politica è il capitolo dedicato alla mediazione. Nel campo della cultura e dell’informazione, sostiene Sinibaldi, i mediatori di un tempo sono sempre più percepiti come irrilevanti, autoreferenziali o addirittura parassitari rispetto a una circolazione del sapere riconosciuta come ugualitaria e immediata. Poco importa che tale percezione di una “democrazia diretta delle lettere” sia illusoria: a finire sotto accusa sono i mediatori stessi e la loro incapacità di adeguare la loro missione al mutare delle forme e dei contenuti del messaggio. Per analogia, il pensiero corre alla povertà di mediazione politica che affligge da tempo il nostro paese, passato dal premier del “lasciateci lavorare” a quello del “non ci fermeranno”. Se la fiducia nei partiti e nel Parlamento è ai minimi storici, la responsabilità è dei troppi rappresentanti eletti che si adeguano al ruolo di macchiette e caratteristi, di difensori di interessi volgarmente particolari o localistici, o si rivelano incapaci di mediare tra il potere e le reali necessità di un paese che faticano innanzitutto a capire. Senza voler sparare nel mucchio o scadere nel qualunquismo, dunque, sarebbe salutare che molti di loro avessero il coraggio di contemplare l’abisso della propria inadeguatezza, prima di scaricare ogni responsabilità sull’ “antipolitica” montante come un tempo si faceva con il “destino cinico e baro”.
di Paolo Pombeni
di Giovanni Bernardini
di Diego D'Amelio *