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04 maggio 2024
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La vecchia guardia e le questioni sul tappeto

Paolo Pombeni - 30.09.2014
Matteo Renzi e articolo 18

E’ noto che la vecchia guardia muore, ma non si arrende, e questo è stato confermato anche dall’andamento della direzione del PD di lunedì 29 settembre. Il fatto è che questa vecchia guardia sembra aver deciso di morire, non per evitare di arrendersi a Renzi, ma perché rifiuta di arrendersi al cambiamento della storia. Ci perdoni Bersani che sembra convinto che ricordare queste cose sia una applicazione del “metodo Boffo”, cioè sostanzialmente accusare senza fondamento di aver compiuto cose ignobili uno che la pensa in modo diverso, come sarebbe appunto il rimanere chiuso nel cerchio delle sue antiche convinzioni.

In realtà la discussione che si è svolta al Nazareno è stata surreale, perché nessuno ha voluto trattare del vero tema sul tappeto, che non è, ovviamente, la questione dell’articolo 18 presa isolatamente. Su quella è un gioco facile dire tutto e il contrario di tutto. D’Alema irride a chi non conosce la storia precedente e fa solo retorica, ma tace sul fatto che, comunque sia, l’attuale premier ha un consenso che nessuno dei precedenti segretari ha mai avuto. In più è facile ricordare che Stiglitz, da lui citato, ha dato una certa ricetta per la ripresa economica che è diversa da quella dei consiglieri di Renzi che non hanno avuto come l’economista americano il premio Nobel, ma omette di ricordare che in una occasione Stiglitz ha avuto apprezzamenti lusinghieri per il premier italiano.

Cerchiamo allora di capire quale sia la materia del contendere, che non può essere ridotta alle battute di Civati che si rammarica di sentire da Renzi “argomenti di destra”. Ascoltando attentamente il dibattito ed analizzando cosa gli sta intorno non è difficile cogliere il tema in questione: come si può dimostrare a chi può investire che in Italia che ci sono le condizioni per farlo.

Curiosamente sul fatto che per creare posti di lavoro ci vogliono investimenti ed iniziative industriali che oggi mancano, concordano tutti: governo, opposizione PD e sindacati. Ciò su cui non riescono a trovare un consenso è sulla ragione per cui questo non si realizza.

Ora delle due l’una: o ciò avviene perché la crisi economica globale è talmente forte che comunque nessuno vuole impegnarsi ad investire sul futuro (e allora non c’è niente da fare), oppure accade perché c’è qualcosa che disincentiva gli investitori dal mettersi in gioco. Su questo punto si apre la querelle fuori bersaglio sull’articolo 18.

In sé, come è ovvio, una gestione oculata di quelle tutele del lavoratore contro licenziamenti arbitrari non sarebbe un ostacolo grave, ma il problema è che nel nostro paese, al contrario di quanto avviene in altri che hanno una normativa simile, la gestione della norma sinora non è stata veramente ragionevole. Magari sarà anche un retaggio di anni passati, forse ora le cose, specie dopo le riforme della Fornero (di cui peraltro quasi tutti mettono in rilievo la cattiva formulazione), potrebbero andare diversamente; resta il fatto che l’indice di fiducia di investitori ed industriali verso il futuro del nostro paese è piuttosto basso.

Quello che di fatto l’opinione comune di questi ambienti ci rimprovera è l’eccesso di corporativismo che rende difficile operare. Qualsiasi iniziativa può cadere sotto le “attenzioni” di sindacati, amministrazioni e burocrazie, che hanno in mano la possibilità di buttare tutto nelle mani di un sistema giudiziario che è lento, farraginoso, costoso e soprattutto imprevedibile nelle conclusioni a cui giunge (per cui quel che viene interpretato in un modo in una sede è interpretato all’opposto in un’altra).

Di cosa ha bisogno dunque il governo per sperare di riattivare la fiducia di investitori ed industriali nel nostro paese? Mostrare che la politica è in grado di rompere questo cerchio perverso sarebbe un segnale prezioso, o almeno così si spera. Questo è ciò a cui punta Renzi, pur con quello stile un po’ arruffone e con la pretesa, che peraltro è tipica di molti leader, di essere colui che potrà realizzare quel che non si è mai neppure pensato.

La vecchia guardia, se vuole davvero mettere in discussione la leadership di Renzi, deve riuscire a dimostrare che il ciclo virtuoso degli investimenti produttivi può essere rilanciato senza bisogno di smantellare simbolisticamente e almeno un po’ realmente la rete vischiosa del nostro corporativismo. Sostenere che si possono trovare mezzi alternativi come il recupero dell’evasione fiscale o l’introduzione della tassa patrimoniale vuol solo dire proporre un libro dei sogni: se all’evasione fiscale non si è messo rimedio da trent’anni a questa parte significa che la partita è difficile e che ci vorrà molto tempo per vincerla. Quanto alla patrimoniale c’è il fondato timore che sia la prima via per far fuggire le ricchezze dall’Italia e con ciò deprimere investimenti e consumi.

Poiché in realtà anche in economia i modi di percepire la realtà contano (non lo diciamo noi, ma molti autorevoli economisti), conviene che la vecchia guardia si arrenda all’esigenza di dare un segnale di cambiamento incidendo laddove quelle percezioni sono negative. Se poi questo significa discostarsi dai vecchi modi di pensare e magari accettare che in tempi di transizione servano leader che si accreditano come capaci di andare controcorrente (ed è inutile fare gli schizzinosi sul come lo fanno, perché nella storia i “cavalieri bianchi” sono rarissimi), bisogna, come si dice, farsene una ragione.

Una volta la sinistra era il partito del progresso. Qualcosa vorrà pur dire.