Obama, l’ISIS e i futuri “nemici giurati” dell’America

La passione per la conoscenza storica spinge talvolta a riempire la propria libreria di vecchi arnesi con la segreta speranza che il tempo li trasformi in preziose testimonianze d’epoca. Non si vedono altre ragioni per conservare uno dei tanti volumi autobiografici che Richard Nixon, 37° Presidente degli Stati Uniti, produsse dopo le sue dimissioni in seguito allo scandalo “Watergate” nel 1974. Dato alle stampe nel 1980 con l’eloquente titolo “La vera guerra”, il libro s’inscrive in un filone fiorente all’epoca negli Stati Uniti: un avvertimento a non sopravvalutare la diplomazia con l’Unione Sovietica, che rimaneva un sistema di potere intrinsecamente pericoloso per il “Mondo libero”. L’appello proveniva dal Presidente che più di ogni altro aveva lavorato per ricondurre alla normalità i rapporti con Mosca; ma nel frattempo “Distensione” era diventata una parola impronunciabile negli Stati Uniti, equiparata al tristemente noto “Appeasement” che aveva consentito a Hitler di preparare indisturbato il proprio attacco all’Europa. Uno schema che, a detta di molti, rischiava di ripetersi alle soglie degli anni ’80 con l’intervento dell’Armata Rossa in Afghanistan, apparente preludio di un rinnovato espansionismo sovietico in Asia. Nel gioco a somma zero della Guerra Fredda, un progresso di Mosca avrebbe provocato una immediata perdita di credibilità e di prestigio per Washington. Era dunque necessario intervenire a supporto di chi sul campo si opponeva all’espansione dell’Impero del Male. E Nixon annunciava con commozione che “tribù musulmane gelosamente indipendenti hanno intrapreso una jihad, una guerra santa, in una lotta mortale a difesa del proprio paese e delle proprie vite. Gli insorti hanno venduto il loro bestiame e i gioielli delle loro mogli per comprare munizioni… Si lanciano contro i carri armati sovietici, sfidando il fuoco delle loro mitragliatrici, e s’impadronirono di essi servendosi soltanto di bastoni e spranghe di ferro”.
Il nemico del mio nemico (mortale)…
La mitizzazione dei mujaheddin era il rovescio della medaglia della demonizzazione dell’URSS, contro cui ogni mezzo era lecito. Le conseguenze sono ben note alla cronaca: il dissanguamento delle forze sovietiche fu perseguito attraverso copiosi e scarsamente controllati aiuti a quei combattenti per l’islam e la libertà. Parte di essi, giunta al potere, avrebbe dato vita al regime dei Talebani e offerto ospitalità a Osama Bin Laden e alla sua organizzazione, destinata a diventare dopo l’11 settembre 2001 il nuovo nemico giurato degli Stati Uniti. Negli stessi anni, un altro avversario mortale di Washington muoveva i primi passi: il regime degli ayatollah in Iran, che sottraeva agli Stati Uniti un alleato fondamentale nell’area. La risposta fu una nuova demonizzazione e la decisione di offrire supporto all’oscuro e discusso dittatore irakeno Saddam Hussein. Ancora una volta, l’identificazione del nuovo “demonio” rese più facile per Washington disporre delle risorse dei contribuenti in quella direzione; salvo dover orwellianamente invertire la direzione delle proprie invettive dal 1991, quando un’imponente operazione militare fu dispiegata per costringere Hussein stesso a lasciare la presa sul Kuwait. Le due storie, come è noto, finirono per convergere dopo il 2001, quando anche l’Iraq fu precipitosamente incluso nella “guerra globale al terrore” con tanto di (false) provette sbandierate in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU per dimostrare la pericolosità assoluta del nemico, e l’altrettanto assoluta necessità di un intervento diretto e immediato senza alcuno spazio per la diplomazia.
I demoni di oggi e quelli di domani
Non è difficile ricostruire a grandi linee un filo rosso che arriva alle notizie di questi giorni e ai nuovi focolai originati in quelle terre anche dall’intervento statunitense. Fino alla recente ammissione di Obama che l’intelligence statunitense ha sottostimato il pericolo costituito dall’ISIS nello stesso Iraq e in Siria. Una sottovalutazione dovuta anche al ruolo che finora i combattenti di matrice religiosa hanno avuto nel fronteggiare un altro nemico giurato degli Stati Uniti: quel regime siriano a cui invece parte della stampa americana inizia a guardare con nostalgia come a un “male minore”. A ogni modo, il Presidente Obama ha promesso di recuperare il tempo perso, a iniziare dai primi attacchi aerei di questi giorni su obiettivi strategici in mano all’ISIS. E perché no, anche dalla convergenza tattica con nemici irriducibili di un tempo non troppo remoto. È il caso dell’Iran degli Ayatollah, timoroso di un’espansione nell’area della guerriglia sunnita. Fino a oggi accusata (a ragione) di nutrire ambizioni nucleari e genericamente di “sponsorizzare” gruppi terroristi, Teheran rischia di venire riammessa a tempo di record nel novero dei paesi responsabili contro il nuovo “asse del male”. E ancora è il caso delle forze militari del PKK, Partito dei Lavoratori Curdo da tempo immemore inserito da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche (in buona compagnia, dato che fino al 2008 ne faceva parte anche l’ “African National Congress” di Mandela, per fare un esempio). Già la stampa statunitense si è diffusa in resoconti affascinati di come queste forze non-religiose e su base volontaria, che annoverano persino una partecipazione paritaria delle donne alle operazioni, stiano contrastando pressoché da sole sul campo l’avanzata dell’ISIS, e stiano prendendo le difese di gruppi etnici e religiosi (come gli Yazidi) nel mirino degli integralisti islamici. Rimane da vedere quanto il supporto per questi ex nemici sarà conciliabile con la diffidenza di vecchi amici, come il governo turco, che per evidenti ragioni ha numerosi conti in sospeso con la forza politico-militare curda. Nel frattempo, il Washington Post sentenzia laconicamente che “l’ironia del momento è profonda: gli Stati Uniti stanno sostanzialmente aiutando un gruppo “terrorista” a combattere altri miliziani in un paese che pure essi hanno occupato per almeno un decennio”.
Oggi come in passato i due principali rischi dell’impegno statunitense in Medio Oriente e altrove derivano da due errori ripetuti da tempo: la tendenza alla demonizzazione assoluta degli avversari, ai quali è negata qualunque possibilità di dialogo, mentre la diplomazia di una “superpotenza” dovrebbe consistere anche nella trattativa con i nemici (a farla con gli “amici” sono tutti capaci); e una scarsa conoscenza dei territori, delle parti in causa, delle dinamiche regionali nelle loro specificità, che raramente ha consentito di operare sulla base di previsioni attendibili e non necessariamente apocalittiche. Oppure la risposta sarà continuare a condannare l’attitudine di chi pone queste questioni come “anti-americanismo”: tanto per cambiare, un’altra demonizzazione infruttuosa.
di Paolo Pombeni
di Giovanni Bernardini
di Stefano Zan *