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La sigaretta di Obama e lo stanco rituale del G7

Giovanni Bernardini - 16.06.2015
Barack Obama e Matteo Renzi

E un altro G7 è scivolato via tra boccali di birra formato bavarese, trite battute sui pantaloni di pelle locali, idilliaci bozzetti alpini di campanili acuminati. Evidentemente gli anni passano senza mutare l’odiosa tendenza dei vertici a fare delle località che li ospitano degli scialbi stereotipi. Grillinamente parlando, si sarebbe tentati di concludere che, se questa banale coreografia corrisponde all’immagine che i sette capi di governo hanno dei rispettivi paesi, c’è da dubitare delle loro ricette per il futuro. Si dirà: “non ci si fermi alle apparenze”. Ben volentieri, se non fosse che l’incontro ha dominato la stampa internazionale soprattutto per un increscioso dubbio che poco ha a che vedere coi contenuti: era una sigaretta quella che Obama stava estraendo nella foto insieme a Matteo Renzi? Analisi tecniche delle immagini, pugnaci pamphlet libertari che invitano il Presidente a non cedere ai bacchettoni, accuse d’incoerenza col salutismo professato altrove, fino all’apoteosi della smentita ufficiale (si badi bene: ufficiale) della Casa Bianca.

 

Apparenze anche queste, certo. Ma chi conosce la storia del G7 sa che l’apparenza non è mai secondaria. Risale al 1975 la convocazione del primo vertice, nel mezzo di una grave crisi economica e di enormi mutamenti globali che, a detta dei protagonisti, esigevano un incremento della cooperazione tra le principali economie capitaliste. Cinque dovevano essere i partecipanti, rappresentanti di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania Ovest e Giappone. Divennero sei dopo le lagnanze delle autorità italiane, per le quali un’esclusione avrebbe favorito la causa comunista in casa; un anno più tardi l’ingresso del Canada chiuse la porta del club. L’invito reso pubblico riportava che il Castello di Rambouillet in Francia avrebbe ospitato un “incontro informale...in un ambiente rilassato e appartato”, con l’obiettivo di “discutere le questioni attuali del mondo in modo franco e informale”. L’obiettivo simbolico era dunque decisivo quanto i contenuti, se non di più: fornire la dimostrazione che il “Nord” era pronto a rispondere in modo coeso alle sfide che provenivano da altre parti del mondo, e se necessario a elaborare nuove regole per l’economia internazionale. In sostanza: la segretezza delle discussioni era complementare alla volontà dei leader di farsi ritrarre pubblicamente in atteggiamenti confidenziali.

 

Difficile rendere breve una storia così lunga, ma si può sostenere che la crescente mancanza di risultati tangibili fu compensata da una progressiva elefantiasi dell’aspetto pubblico, degli apparati al seguito, di giornalisti che nel 1992 raggiunsero le 4.000 unità. Se gli incontri dovevano rilanciare lo spirito collegiale dell’Occidente, essi resero chiara invece la perseveranza degli Stati Uniti nel loro corso unilateralista di riforma delle regole dell’economia internazionale in termini liberisti: volenti o nolenti, gli altri partecipanti erano “invitati” a seguire ciò che più tardi fu chiamato “Washington consensus”, e a conferire sempre maggiori poteri alle organizzazioni internazionali “tecniche” come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Dei risultati di quella stagione è giusto discutere senza pregiudizi ma difficilmente il G7 ha rappresentato allora un forum di raggiungimento del consenso tra le parti. Ancora di più, l’incremento delle delegazioni ha finito per contraddire l’obiettivo originario di “mobilitare la leadership politica per risolvere problemi che trascendevano le capacità delle burocrazie”. Mentre gli aspetti tecnici prendevano il sopravvento, l’immagine che si offriva non era quella di un governo del mondo, ma di un “non-governo” che accettava progressivamente di spogliarsi di competenze e prerogative a favore di organismi tecnici e delle forze del libero mercato.

 

Gli anni ’90 videro il tentativo di rivitalizzare l’organismo, rilanciando l’idea di una guida della “globalizzazione” e integrando simbolicamente la nuova Russia post-sovietica. Nel primo caso la vastità dei mutamenti in atto e la sua mancata condivisione da parte di ampi strati dell’opinione pubblica produssero l’identificazione del G7 con un club d’elite, segnato da un divario incolmabile tra la portata globale dei compiti che si arrogava e la mancanza di legittimità a decidere per l’intero pianeta. I vertici assunsero così il carattere di vere cittadelle fortificate e assediate; da allora fu sempre più difficile coniugare la volontà originaria di infondere fiducia con l’ampio strascico di conflitti che li ha accompagnati. Quanto all’obiettivo di fare della Russia l’ “ottavo membro” del club, le tensioni attuali sulla questione ucraina rendono superflui ulteriori commenti, ma è opportuno rimarcare come le ambizioni di conferire al G7 compiti di natura politica e non soltanto economica si siano sempre confermate vane. Nato per dimostrare concretamente la coesione dei “7 grandi”, il modello dei G7 appare sempre più un relitto del passato, inadeguato a tempi e gerarchie nuove (l’esclusione della Cina è soltanto il problema più evidente). Fino all’ultimo incontro di Elmau, del quale sappiamo che i leader si sono impegnati a “mantenere l’aumento della temperatura globale entro i due gradi”, ennesimo gioco delle tre carte su un tema che avrebbe bisogno di impegni ben più stringenti; che, dopo 7 anni di crisi economica, si è discussa “l’idea di un codice di condotta per i banchieri”, ovviamente senza giungere a risultati vincolanti; e che si è discusso di “lotta alla corruzione” e “promozione dello sviluppo globale”: temi che, all’ennesima reiterazione senza effetti tangibili, rischiano di suonare come gli auspici per la pace nel mondo delle Miss Mondo che come convincenti assunzioni di responsabilità di fronte all’opinione pubblica.

 

Il G7 sta dunque rivelando la propria inadeguatezza anacronistica tanto rispetto agli obiettivi storici quanto alle enormi sfide attuali, che richiederebbero maggiore tempestività politica di quanto un incontro fisico tra leader può oggi garantire. Ben più urgente sarebbe un rinnovamento delle architetture istituzionali internazionali in direzione più rispondente alla realtà; e perché no, mirate a una maggiore pubblicità sulle trattative in corso che contrasterebbe populismi, complottismi e la temuta “fuga dalla politica”. Per le loro franche discussioni personali, in fondo, i leader possono sempre ricorrere a banali conferenze internet dai loro uffici, dove concedersi anche una sigaretta al riparo dalla stampa indiscreta.