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13 novembre 2024
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La maledizione di Tangentopoli

Paolo Pombeni - 05.04.2016
Renzi a

Quel che sta succedendo con la vicenda messa in moto dalle indagini della procura di Potenza ricorda purtroppo alcune caratteristiche della vicenda storica di Tangentopoli. Intendiamoci: al momento non c’è in campo una questione di tangenti ai partiti, e dunque da questo punto di vista non c’è alcun parallelismo. La questione è piuttosto un’altra: come allora il tentativo è quello di buttare all’aria un equilibrio politico senza avere a disposizione alcun sistema di ricambio.

Si può certo pensare che siamo ben lontani dal conseguire il risultato di far cadere l’attuale governo, ma sottovalutare le potenzialità che contiene la crisi attuale potrebbe rivelarsi azzardato. Per battere Renzi le opposizioni dovrebbero riuscire a provocare una scissione interna al PD e questo appare ancora un risultato impossibile, perché la minoranza dem sa benissimo che far cadere il governo in questo modo significherebbe un salto nel buio da cui certo non si salverebbe. Anche da questo punto di vista Tangentopoli qualcosa dovrebbe averlo pur insegnato.

Tuttavia l’obiettivo che viene perseguito da un complesso di forze che l’attuale premier ha disinvoltamente battezzato come “la santa alleanza” è più articolato, come piuttosto articolata è quella stessa coalizione al suo interno, perché non la si può ridurre al solo fronte delle attuali opposizioni parlamentari. Per una parte l’obiettivo è accompagnare Renzi ad una sconfitta elettorale; per un’altra parte probabilmente ci si accontenterebbe di ridimensionarlo fortemente.

Riaccendere il populismo contro una politica che si dipinge come succube di poteri forti e di oscure lobby significa puntare su un nervo ancora scoperto nel paese. Renzi ha capito subito l’antifona e infatti nella sua narrativa ha preso il toro per le corna: ha rivendicato l’azione di rilancio e sblocco dell’iniziativa pubblica, vantandosene come di una azione meritoria che si vuole impropriamente far passare per criminale.

Basterà? Questo è il vero nodo della questione. L’esistenza di un rapporto inevitabile fra decisioni politiche e politiche degli interessi è un dato di fatto che si riscontra in tutti i paesi del mondo. Se si interviene sull’università o sulla scuola fanno azioni di pressione sui decisori politici quelli che lavorano in quei settori. Così succede per la giustizia, per le assicurazioni, per le normative sul lavoro e avanti con un elenco pressoché infinito. La dinamica è ovviamente ambigua, perché chi interviene può essere tanto un soggetto che vuole aiutare chi deve prendere decisioni fornendogli dall’interno dei problemi elementi per prenderle nel migliore dei modi, quanto un soggetto che vuole più semplicemente orientare quelle decisioni in un senso banalmente favorevole ai suoi interessi. Per di più il confine fra le due fattispecie è piuttosto labile, perché anche chi vuole il bene generale non manca di rappresentare un interesse coinvolto così come a volte la difesa di interessi di parte si riverbera su vantaggi per una cerchia più ampia di soggetti.

Il problema in tutti i paesi è come tenere sotto controllo questo fenomeno in maniera che rimanga entro confini accettabili e soprattutto che non scada nella corruzione o anche solo nella ricerca di vantaggi indebiti per qualche parte in causa. In Italia siamo poco attrezzati su questo terreno, perché siamo costretti a demandare tutto alla sfera giudiziaria. E anche qui non è un caso che subito la narrativa renziana abbia rivendicato provvedimenti che accentuavano questo passaggio, dall’anticorruzione di Cantone ad una serie di leggi che alzavano i livelli di punizione per quei reati.

Però il problema di fondo rimane proprio il limite di questo affidarsi salvifico ai tribunali. L’intervento dei magistrati, a parte vari problemi che pone, non tranquillizza l’opinione pubblica, ma espande il sospetto che per uno che viene punito ce ne siano dieci che la fanno franca, soprattutto in un sistema giudiziario lento, farraginoso e più capace di denunciare che di reprimere davvero. Di nuovo Renzi l’ha capito al volo e infatti ha rivendicato che il suo partito non chiede immunità o altro, ma processi rapidi e conclusioni in tempi brevi. Ottima scelta per delegittimare azioni giudiziarie che anche con la più buona volontà raramente possono adeguarsi a quelle richieste, ma anche scelta pericolosa perché non è comunque capace di contrastare efficacemente la communis opinio secondo cui dei politici c’è poco da fidarsi.

Del resto quel che emerge da quanto viene ricostruito attraverso intercettazioni e inchieste giornalistiche non è fatto per mettere in crisi quelle opinioni correnti: si va da imprenditori che approfittano di relazioni familiari per accreditarsi negli affari (dopo aver diffuso tweet che definire disinvolti è un eufemismo) a compagnie petrolifere straniere che stanno al gioco, a ministri che sembrano ignorare le regole elementari del riserbo che si impone a chi detiene cariche pubbliche.

La possibilità che tutto questo logori il governo, soprattutto nel momento in cui Renzi decide di rispondere con un eccesso di protagonismo, è assai concreta. Senza immaginare debacle al momento non ipotizzabili, se questo portasse ad indebolimenti del renzismo prima al referendum sulle trivelle, poi alle amministrative e infine al referendum sulle riforme costituzionali sarebbe sufficiente per costringere l’attuale premier a giocare più sulla difensiva alle prossime elezioni politiche (che al più tardi nel 2018 si faranno). Con una legge maggioritaria come l’Italicum questo significherebbe per lui doversi preparare a fare liste di ampia coalizione in modo da accontentare molti, il che significherebbe un pesante ridimensionamento della sua leadership.

In fondo è a questo che mirano i suoi avversari più pericolosi, quelli che più che al salto nel buio nelle mani dei partiti populisti pensano a ridimensionamenti pesanti dell’attuale equilibrio politico.