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La guerra ci spinge in un nuovo "semestre bianco"

Luca Tentoni - 12.03.2022
Salvini e Putin

La guerra ha stravolto il percorso della politica italiana, ma forse i partiti non se ne sono resi conto pienamente. Da un lato, l'aggressione della Russia all'Ucraina impedisce "sorprese" in Italia: chi stava facendo le prove generali per una crisi di governo a giugno (con le prime avvisaglie già nelle votazioni a rischio sulla riforma del catasto) dovrà rassegnarsi. Siamo, di fatto, in un nuovo "semestre bianco": con la guerra e con le conseguenze del conflitto dovremo convivere per parecchio tempo (frattanto avremo anche le amministrative e i referendum di primavera), poi dovremo approntare la nuova legge di bilancio e arriveremo alla conclusione naturale della legislatura. È bene saperlo: qualora Draghi fosse costretto alle dimissioni da qualche giochino parlamentare, Mattarella non dovrebbe far altro che rinviarlo alle Camere. Fino a poco tempo fa c'era l'ipotesi che la Lega si sganciasse dalla maggioranza, in tarda primavera, per affrontare gli ultimi mesi di legislatura all'opposizione (provando a recuperare i voti persi verso Fratelli d'Italia): dopo lo scoppio della guerra, il piano (se c'è stato) è saltato. Oggi Salvini va persino in Polonia (a farsi ricordare le amicizie russe da un sindaco locale di destra: una nemesi) pur di cancellare l'immagine di amico di Putin e del regime di Mosca. I suoi alleati del destracentro sono stati più scaltri: la Meloni si è schierata senza esitazioni a favore dell'Ucraina, mentre un sornione e insolitamente taciturno Berlusconi si tiene sotto coperta, sperando che nessuno rispolveri le tante fotografie con Putin (e il letto donatogli dal leader russo). Tornando a Salvini, la situazione lo spinge a dover affrontare mesi più difficili del previsto, fra immagine internazionale (difficile da cambiare, perché all'estero i nostri partner hanno buona memoria, senza contare le simpatie per Trump: forse il leader leghista si può scordare Palazzo Chigi) e concorrenza a destra (i neomissini della Meloni hanno ormai preso il largo nei sondaggi, staccando la Lega). Fare la voce grossa sul catasto e sulle concessioni balneari può servire a riempire i social e a fare qualche titolo di giornale, ma quando alla fine la Lega vota col governo e non provoca la crisi, vince sempre la Meloni (che almeno è coerente, nella sua posizione di ultradestra). Non può fare sorprese neppure Conte, che ultimamente si sta concedendo troppi "giri di valzer" al di fuori dell'alleanza col Pd (per esempio sulla fine delle restrizioni legate al Covid; si notano piccole ma significative sponde con la Lega che adombrano una qualche nostalgia per i tempi del governo gialloverde) ed è decisamente nei guai con la storia della sua investitura (costantemente rimessa in discussione in interminabili dispute legali). I Cinquestelle annaspano al 12,7% dei voti - nei sondaggi - cioè ben 20 punti sotto il risultato del 2018: un disastro che si pensava di risolvere dando pieni poteri a Conte. Ma quest'ultimo ha molta più popolarità personale rispetto a quella di cui gode (si fa per dire) il suo partito. La guerra blocca anche i centristi, perché impone agende diverse che certo non contemplano la riforma elettorale proporzionale. In mezzo al guado, Calenda, Renzi, Toti e forse persino Berlusconi dovranno decidere cosa fare (gli ultimi due, è facile pensarlo, staranno ancora nel centrodestra). Poi c'è il Pd, che è il primo partito italiano "per differenza", cioè perché il grande blocco elettorale della destra sovranista (intorno al 38%) si divide fra Carroccio e FdI lasciando il partito della Meloni poco sotto quello di Letta e il partito di Salvini al 17% (un dato persino minore di quello delle politiche 2018): alle prese col "campo largo" che non decolla, i Democratici attendono i responsi delle amministrative per sapere se hanno la speranza di impedire alla destra di vincere nel 2023 (ormai l'obiettivo non è la vittoria del centrosinistra, ma un più realistico ritorno di Draghi a Palazzo Chigi dopo il voto, a capo di una "coalizione Ursula"). Se nel 2020 un dramma (la pandemia) aveva congelato consensi ai partiti e beghe politiche, nel 2022 una nuova tragedia (la guerra) lascia fluido il "mercato elettorale" e trasforma i contrasti in un "conflitto a bassa intensità" (nel quale si logora il governo meno del voluto, perché di più non si può fare). Il voto è mobile: se nel 2018 i gialloverdi potevano contare su circa il 51% dei voti, oggi raccolgono insieme il 30% (molto meno del 34% del solo Salvini alle europee) mentre FI e FdI che nel 2018 avevano circa il 18,3% (14 più 4) oggi hanno il 29% (8 più 21). In pratica, quattro anni fa i gialloverdi avevano circa il triplo dei voti dei "neroazzurri", mentre ora sono praticamente pari, a riprova che tutto può succedere. Ecco perché i partiti si agitano e perché ogni causa va difesa per conquistare o mantenere voti: dal catasto ai balneari, dai novax ai "no Zan" (e "no eutanasia legale") tutto fa brodo, come in un famoso "Carosello" d'epoca.