Il voto omnibus del 20-21 settembre
L'election day, forse, si farà. I giorni scelti per chiamare gli italiani alle urne per rinnovare sette consigli regionali (sei ordinari, uno a statuto speciale), migliaia di consigli comunali e per il referendum costituzionale sul "taglio" di 115 seggi al Senato e 230 alla Camera, dovrebbero essere domenica 20 (150° anniversario della presa di Roma) e lunedì 21 settembre. Normalmente questo tipo di accorpamento delle consultazioni è giustificato - come stavolta, del resto - con risparmi mirabolanti di bilancio per le casse dello Stato (che invece sono infinitesimali; per di più, è il costo della democrazia, cioè di un bene che non ha prezzo). Stavolta, però, lo si spiega con la necessità di votare nella "finestra" fra l'estate e la possibile ripresa autunnale della diffusione del Covid-19. Se teoricamente è una buona ragione, non vanno però trascurati alcuni fatti non del tutto accessori. Il primo è l'effettuazione del referendum costituzionale insieme alle amministrative, che finisce non solo per "dopare" l'affluenza alle urne (forse più quella del referendum che quella di comunali e regionali, dato l'esito pressoché scontato della consultazione sul taglio dei seggi) ma anche per fornire ad un partito oggi in enormi difficoltà (il M5s) una vetrina eccezionale per sovrapporre alle difficoltà nell'insediamento locale e al calo di consensi (generato anche dagli aspri contrasti interni e dall'azione non sempre brillante dei due governi pentastellati guidati da Conte) il marchio pubblicitario della "distruzione creativa" di 345 posti destinati alla "Casta". Non è solo ai Cinquestelle che l'election day conviene: serve anche ai presidenti delle giunte regionali uscenti che avranno la possibilità di sfruttare l'effetto "gestione dell'emergenza Covid" per tentare di ottenere rielezioni che in molti casi sembravano - pochi mesi fa - a rischio (tranne che in Veneto, dove Zaia vincerebbe verosimilmente anche se si presentasse da solo, senza la Lega). I "governatori" (che si definiscono tali senza esserlo formalmente, perché non siamo negli Usa) avrebbero addirittura voluto votare già a inizio luglio, se gli fosse stato loro concesso. È vero che il loro quinquennato e la legislatura regionale si sarebbero conclusi normalmente a maggio (senza la proroga che è stata disposta) ma è anche vero che tanta fretta ha, appunto, uno scopo tutto volto all'immediata rielezione degli uscenti, per i quali l'election day del 20-21 settembre è persino tardivo (carpe diem). Come molti compromessi, l'accorpamento elettorale ha un sapore agrodolce: i partiti di destra (Lega e FdI) avrebbero voluto votare più tardi, sperando di intercettare l'onda della crisi economica che si abbatterà sul Paese. Uno dei vincitori di questa partita è il presidente del Consiglio: se si fosse votato a luglio ci sarebbe stato tempo persino per nuove - improbabili - elezioni politiche anticipate a settembre (o per un nuovo governo), ma così la finestra elettorale si chiude fino a marzo 2021 (e la prospettiva di festeggiare tre anni a Palazzo Chigi diventa, per Conte, meno impossibile di quanto apparisse anche solo quattro mesi fa). Col semestre bianco presidenziale che coprirà l'intera seconda parte del 2021, di fatto potremmo rinnovare anticipatamente le Camere solo fra marzo e giugno del prossimo anno oppure a maggio-giugno 2022: a quel punto, però, per farne cosa, visto che la fine naturale della legislatura è fissata per l'inizio del 2023? In tutto questo si inseriscono altre partite politiche: quella sulla legge elettorale (Italia viva e Conte, si dice, non vogliono la riforma che introdurrebbe un sistema proporzionale con soglia del 5% applicato a tutti i seggi in palio, perché se il Rosatellum non venisse riformato i pochi voti del partitino renziano e dell'eventuale partito contiano sarebbero determinanti per le coalizioni nei collegi uninominali) ma anche quella per la leadership a destra. Nel 2018 si disse che sarebbe diventato capo della coalizione il leader della forza politica con più voti: Berlusconi sperava di restare al primo posto - anche per un soffio - davanti alla Lega, ma Salvini rimontò soprattutto negli ultimi giorni prima delle elezioni e fu il capo leghista a diventare il "dominus" di un raggruppamento che avrebbe provveduto a sfasciare al momento di fare il governo gialloverde col M5s, mandando all'opposizione FI e FdI. Oggi la disputa è diversa: il Cavaliere è ormai fuori gioco, mentre la Meloni sta recuperando voti alla Lega, con un'Opa neanche troppo nascosta su quel 40% dei suffragi che i sovranisti hanno ottenuto nel 2019 (allora, però, il 34% era leghista e il 6% neomissino). L'election day arriva troppo presto per Salvini, che teme l'ondata meloniana al centrosud e sa che Zaia è un leghista veneto, cioè una sorta di alleato bavarese della Dc tedesca (i veneti, nel Carroccio, sono sempre stati una famiglia a parte, orgogliosamente). Per di più, mentre nella Lombardia salviniana la gestione dell'emergenza non è stata del tutto esemplare, il Veneto zaiano ha agito meglio di tutti gli altri (con risultati eclatanti e incontestabili). Tutti questi intrecci politici e tecnici si ritroveranno nell'urna, il 20 e il 21 settembre. Dal pomeriggio del lunedì inizierà il calcolo dei risultati; subito dopo, le tante rese dei conti nei partiti e nelle coalizioni.
di Luca Tentoni
di Lucrezia Ranieri *