Il viaggio apostolico, un cardine della politica vaticana
La storia sa correre veloce come un jet.
Gennaio 1964: Paolo VI fu il primo papa a salire su un aereo. Volò con destinazione Terra Santa e inaugurò così una nuova stagione nella vita della Chiesa: negli anni successivi papa Montini si sarebbe recato in Libano e India, Stati Uniti, Portogallo, Turchia, Colombia e Bermuda, Svizzera, Uganda e avrebbe portato a termine un lungo giro tra l’Asia e l’Oceania, dall’Iran fino in Australia (25 novembre-3 dicembre 1970).
Gennaio 2015: il viaggio di Francesco fa tappa a Manila dove viene celebrata una messa davanti a milioni di persone. Le stime oscillano tra sei e sette, padre Federico Lombardi – direttore della Sala Stampa della Santa Sede – ha parlato del più grande avvenimento della storia pontificia. Tra Paolo VI e Francesco sono stati tre gli eletti al soglio di Pietro. Fatta eccezione per il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, di voli se ne contano davvero tanti. Soprattutto per iniziativa di Giovanni Paolo II, “il papa viaggiatore” che fu protagonista di centocinque visite fuori Italia. Ognuna di esse, diceva Woytila, rappresentava “un autentico pellegrinaggio al santuario vivente del popolo di Dio”. Neppure Benedetto XVI si è risparmiato: ventiquattro volte si è spinto fuori dai confini italiani.
Gesuiti.
Il più assiduo viaggiatore apostolico degli anni Sessanta-Settanta, in verità, non fu Paolo VI ma Pedro Arrupe. Eletto nel 1965 generale della Compagnia di Gesù, l’ordine religioso di Bergoglio e Lombardi, Arrupe caratterizzò gli anni del proprio governo per le frequentissime escursioni oltreoceano. A chi gli rimproverava di non essere abbastanza presente a Roma rispondeva che se il fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola, avesse avuto a disposizione un aereo non avrebbe certo perso l’occasione di andare a conoscere i propri fratelli. Il gesuita del XX secolo aveva l’opportunità, specificava Arrupe, di essere più ignaziano di Ignazio. Poteva vedere di persona e non accontentarsi di leggere migliaia e migliaia di lettere. Le accuse di aver deviato dall’indispensabile centralismo romano oggi fanno sorridere. Come per altri aspetti della politica ecclesiastica, alla luce del tempo Arrupe si dimostra un uomo capace di intuire lo sviluppo delle cose future.
Una borsa e le conferenze stampa.
Francesco ha fatto del viaggio apostolico una pietra angolare del proprio pontificato. Niente di strano per un uomo che proviene dall’ordine missionario per antonomasia e che può rifarsi all’esperienza del santo predecessore polacco. Bergoglio però ha uno stile tutto proprio, inaugurato da quella borsa di pelle portata a mano sulla scaletta di un volo con destinazione Rio de Janeiro. Fu un tocco di semplicità, confermato dal tono colloquiale delle ormai celebri conferenze stampa tenute in aereo, dove il papa parla a braccio. Sono proprio queste conferenze che si sviluppano in un clima disteso, ricco di sorrisi, le occasioni nelle quali l’eco delle parole di Francesco trova la sua massima risonanza. Molti ricordano quando di rientro dalla Giornata Mondiale della Gioventù in Brasile sorprese con l’affermazione: “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?”. Presumibile che non si dimenticherà facilmente il riferimento alla “paternità responsabile” e l’invito a non fare figli come i conigli, parole pronunciate di ritorno da Manila.
Anche i programmi futuri sono stati sovente ufficializzati in cielo: dei futuri viaggi i giornalisti hanno saputo proprio in aereo. È successo anche qualche giorno fa, quando Bergoglio ha confermato le prossime trasferte nel suo continente d’origine. Facile immaginare nuovi bagni di folla.
Idee per aria.
Che il viaggio sia una componente fondamentale della politica vaticana è fuori di dubbio. Giovanni Paolo II lo ha dimostrato con grande frequenza: basti pensare alla Polonia prima della caduta del muro, all’incontro con Fidel Castro a Cuba, alla richiesta di perdono in Africa per il coinvolgimento dei cattolici nella tratta degli schiavi. Di Benedetto XVI quello che più si ricorda è il discorso di Ratisbona con la denuncia del lato violento della religione musulmana. È dunque fuori le mura vaticane che la Chiesa trova la maggiore cassa di risonanza per i propri messaggi. Le novità di Francesco sono però i toni e la modalità: l’utilizzo del linguaggio della quotidianità, le battute di spirito e la scelta di parlare mentre si vola. Se cinquant’anni fa l’aereo era un mezzo capace di avvicinare le persone spostandole da un luogo all’altro, oggi può essere pensato come il simbolo di una comunicazione senza spazio e senza tempo, ideale amplificatore di idee. La seconda metà del Novecento fu un tempo immaginato “sulla strada”. Oggi si va addirittura in cielo.
di Paolo Pombeni
di Claudio Ferlan
di Patrizia Fariselli *