Ultimo Aggiornamento:
17 aprile 2024
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Il Soft Power, le catacombe e l’Azerbaigian a Roma

Giovanni Bernardini - 19.04.2014
Il soft power

C’erano una volta gli anni ’90 con le loro mode e subculture, oggi già avviate sulla strada della redenzione vintage. C’era allora il trionfalismo post-Guerra Fredda, le “magnifiche sorti e progressive” di un mondo conquistato dal progresso della democrazia, unificato dalla “globalizzazione”, rimpicciolito dai nuovi mezzi di comunicazione e dai viaggi low cost. Ci fu anche qualcuno furbo abbastanza da arricchirsi (quale miglior tributo a quell’epoca!) proclamando in milioni di copie la “fine della storia” e la prossima “morte per noia” di un’umanità ormai priva di ambizioni.

E c’era il soft power, per chi lo ricorda. Nelle intenzioni dello scienziato politico statunitense Joseph Nye, esso misurava la capacità di un paese di attrarre, cooptare e influenzare senza uso della forza o egemonia economica. Piuttosto, il soft power risiederebbe nell’abilità di rendere attraenti e meritevoli di emulazione la propria cultura e i propri valori. Per quanto Nye abbia insistito sulla potenziale applicabilità del principio a qualunque soggetto internazionale, nella vulgata dell’epoca esso coincise fatalmente con la rinnovata diffusione e generalizzazione di costumi, consumi, gerghi provenienti dagli Stati Uniti vincitori della Guerra Fredda.

Entro un decennio, il soft power così inteso si sarebbe eclissato bruscamente, per lasciare spazio alla riscoperta drammatica di una pluralità del mondo e di resistenze più o meno aggressive alla sua omologazione; dopo l’11 settembre 2001, l’approdo degli Stati Uniti e più in generale dell’Occidente a un uso unilaterale dell’hard power dall’Afghanistan all’Iraq si accompagnò all’ascesa della discussa tesi sullo “scontro tra civiltà” come orizzonte inevitabile. A fare il resto, in tempi più recenti è stato l’emergere della crisi economica che ha coinvolto gli Stati Uniti e ancor di più l’Europa, da tempo interessata a promuovere il proprio carattere di “potenza civile”: perché la natura sottile e duttile del soft power non lo rende meno dispendioso.

Ha senso oggi recuperare il soft power come si riesuma un maglione tornato di moda dalle profondità di un armadio? A giudicare da quanto accaduto di recente a Roma, c’è ragione di credere che non sia un’operazione di mera nostalgia. Dato lo stato lamentevole del patrimonio architettonico italiano, certamente merita apprezzamento la notizia che un sito archeologico di primaria importanza è tornato fruibile ai visitatori. Si tratta delle Catacombe di San Marcellino e Pietro, considerate tra le più belle e significative in ragione della pinacoteca muraria paleocristiana che custodiscono. Naturale chiedersi da quale eufemistica “riallocazione di risorse” le autorità governative abbiano ricavato il denaro necessario. Niente di più lontano dal vero: due anni orsono la Pontificia Commissione di archeologia sacra aveva sottoscritto un protocollo d’intesa con la “Fondazione Heydar Aliyev” affinché quest’ultima sovvenzionasse gli interventi di riqualificazione del monumento. Un nome non banale, quello di Aliyev: primo presidente dell’Azerbaigian dopo il crollo sovietico, egli avrebbe dominato la vita politica del paese fino alla sua scomparsa un decennio fa. Dal 2003 gli successe, tra pesanti accuse di brogli, il figlio Ilham; un anno dopo nasceva la fondazione destinata a onorare la memoria paterna, affidata alla nuova vaporosa first lady Mehriban che è l’artefice dell’accordo concluso con la Santa Sede. Quanto alle ragioni di tanta generosità, basterà uno sguardo agli obiettivi dichiarati della fondazione: tra questi il “supporto alla promozione dell’immagine dell’Azerbaigian nel mondo” e la “comunicazione di un’informazione corretta” su di esso. Nel frattempo, il paese a larga maggioranza musulmana sciita ha regolarizzato la situazione giuridica della Chiesa cattolica nel suo territorio; quanto al restauro, la stessa Santa Sede nelle ultime settimane si è prodigata nel rimarcare la straordinaria convergenza tra mondo musulmano e cristiano nel preservare un patrimonio culturale universale. Nulla di nuovo: da tempo le autorità azerbaigiane cercano di portare sul terreno del soft power il confronto con l’ingombrante vicino iraniano facendo leva sulla maggiore liberalità di costumi, sui migliori rapporti con l’occidente e sulla tolleranza religiosa. Questo non ha mai impedito al regime di prodursi in numerosi giri di vite contro le opposizioni, la presenza di ONG straniere e più in generale la libertà d’espressione: fenomeni puntualmente denunciati da una ristretta cerchia di media, ma non certo da quelli di più larga diffusione che pochi giorni fa proiettavano nelle case italiane gli stupefacenti risultati del restauro. Ed è bene non farsi illusioni su quali immagini i futuri visitatori delle catacombe romane assoceranno al nome di un paese che avrebbero difficoltà a identificare sulle mappe. Se dunque gli analisti e più in generale gli interessati agli affari internazionali continueranno a misurare la rilevanza di un paese e più in generale i nuovi equilibri mondiali anche in termini di soft power, sarà bene che essi recuperino gli ammonimenti originari di Nye sulla natura descrittiva e non normativa del concetto: l’esercizio del soft power, a prescindere dai risultati positivi, non rende automaticamente “buoni” i suoi fautori. Esso non è una forma di idealismo ma semplicemente di potere: e negli anni ’90 come oggi, l’esercizio dell’influenza sui cuori e sulle menti non esclude un parallelo abuso della forza su altri terreni.