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Le più grandi elezioni della storia: l'India al voto

Giulia Guazzaloca - 19.04.2014
India al voto

Sono 815 milioni le persone chiamate al voto nelle elezioni nazionali che si tengono in queste settimane in India: è il più massiccio esercizio democratico nella storia di tutti i tempi. Con 1,2 miliardi di abitanti, infatti, l’India ha un corpo elettorale che è circa 15 volte quello italiano; i seggi sono poco meno di un milione, i giovani che votano per la prima volta sono 23 milioni (quasi il 3% dell’elettorato), gli uomini 426 milioni, le donne 387 e per la prima volta circa 30 mila elettori sono registrati come appartenenti ad «altro genere» sessuale. Si sono presentati alle elezioni più di 1.300 partiti, in gran parte gruppi politici locali. La complessa articolazione amministrativa del paese (28 Stati e 7 territori) ha infine reso necessario suddividere le elezioni in 9 giornate; si concluderanno quindi il prossimo 13 maggio.

Ma a colpire gli osservatori esterni non sono solo i numeri, imponenti, di questa elezione, bensì l’essenza, le dinamiche, le origini storico-culturali della democrazia indiana. L’India si può davvero definire «la più grande democrazia del mondo» in virtù del fatto che è il paese più popoloso a regime democratico? Il tema è da molto tempo oggetto di dibattito all’interno della comunità accademica internazionale e finisce per investire il concetto stesso di democrazia: se si utilizza la «definizione minima» formulata da Norberto Bobbio, ovvero la democrazia come tecnica delle decisioni collettive fondata sul principio maggioritario – schematicamente votare e contare – non vi sono dubbi che l’India sia un grande paese democratico. Ma che il meccanismo elettorale sia sufficiente a qualificare l’India come una solida democrazia è cosa sulla quale molti studiosi non convengono. Non possiede infatti quel tessuto sociale relativamente stabile ed omogeneo, per etnia, lingua, religione, condizioni economiche, che nel corso del XIX secolo permise l’attecchimento delle istituzioni democratiche nel mondo occidentale. Corruzione, povertà, analfabetismo, profonde sperequazioni sociali, sistema delle caste, fondamentalismo religioso, nazionalismo sono tutti fattori che, secondo alcuni, minano l’essenza «vera» della democrazia indiana; secondo altri ne costituiscono l’«eccezionalismo» in positivo, dimostrando come la democrazia possa radicarsi e svilupparsi anche al di fuori dell’Occidente e in presenza di condizioni socio-economiche molto instabili.

Le attuali elezioni sono dunque seguite con estremo interesse dalla comunità internazionale – e molto discusse sui social network – per vari motivi. L’India appare infatti uno straordinario laboratorio per capire se la democrazia potrà sopravvivere in un paese frammentato e pieno di contraddizioni e se, in prospettiva, altri paesi di quello che una volta si chiamava Terzo Mondo saranno in grado di seguire il suo esempio. A questo proposito non è irrilevante il fatto che in nessun’altra parte del mondo circa 160 milioni di musulmani siano stabilmente integrati in un sistema democratico. Proprio il voto dei musulmani sarà fondamentale in questa tornata e soprattutto lo sarà quello delle donne, perché il partito vincitore avrà quasi sicuramente bisogno dell’appoggio di alcuni partiti regionali che hanno proposto candidate donne; e il tema della violenza di genere – altra piaga drammatica dell’India contemporanea – è stato molto presente nel dibattito politico recente, mobilitando migliaia di persone a favore di leggi contro la violenza e per migliorare la rappresentanza femminile nelle istituzioni.

La questione cruciale di queste elezioni è tuttavia l’economia. L’India continua ad essere un gigante economico e a conoscere un eccezionale sviluppo del settore informatico e tecnologico; ma oltre all’endemico problema delle disuguaglianze e della povertà (in alcune regioni arretrate hanno preso vita forme di lotta armata), alle carenze nel campo delle infrastrutture, alla corruzione dilagante, specie nella pubblica amministrazione, si sono registrati negli ultimi tempi l’aumento dell’inflazione e quasi un dimezzamento nel tasso di crescita. Quest’ultimo infatti, che era pari all’8,5%, nel 2004, ora è vicino al 5%, mentre il prodotto interno pro capite è quattro volte superiore in Cina. Secondo molti analisti, la frenata dell’economia è dovuta principalmente alle inefficienze e lentezze della burocrazia (problema che ben conosciamo anche noi italiani) e alla massiccia corruzione, entrambi fattori che, tra le altre cose, stanno facendo diminuire in modo consistente gli investimenti stranieri.

Anche sotto il profilo politico queste elezioni sembrano cruciali: potrebbero infatti mettere fine alla lunga egemonia, quasi incontrastata dall’indipendenza (1947) in poi, del Partito del Congresso, oggi presieduto da Sonia Gandhi e al governo dal 2004 con l’attuale primo ministro Manmohan Singh. Battuto alle elezioni locali di fine 2013, il Partito del Congresso si trova oggi a subire l’agguerrita concorrenza del Partito Popolare Indiano (Bharatiya Janata Party) di orientamento nazionalista indù e conservatore, guidato da Nerenda Modi, che i sondaggi danno in netto vantaggio. Modi si è distinto per un uso capillare ed efficace dei moderni social media: ha condotto buona parte della campagna elettorale attraverso Twitter e Facebook (seguito rispettivamente da 3,6 e 11,6 milioni di persone) e per raggiungere gli elettori non digitalizzati, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione, ha messo in piedi la campagna «Chai pe charcha» («chiacchiere da tè»), ossia comizi virtuali trasmessi su grandi schermi installati in ogni angolo del paese. Che si tratti delle prime «elezioni social» del subcontinente indiano lo dimostra anche lo straordinario attivismo in rete del Partito dell’Uomo Qualunque (Ama Aadmi Party), una formazione politica recente, nata dalla società civile (in Italia è stato paragonato al Movimento 5 Stelle) che nelle elezioni locali di Delhi, lo scorso anno, si è attestata al secondo posto superando per preferenze il Partito del Congresso. Con una campagna elettorale plasmata per essere «Twitter friendly», l’AAP ha cercato di attirare soprattutto il voto dei giovani e degli indiani non residenti (Non Resident Indian).

Molto probabilmente alla maggioranza dei cittadini indiani interessano poco le dispute teoriche che affascinano gli intellettuali occidentali: la natura della loro democrazia, se e quanto è «perfettibile», se si tratta della piatta importazione del modello europeo o viceversa, come ritiene il premio Nobel Amartya Sen, è il frutto di una lunga tradizione di pluralismo e tolleranza intrinseca alla storia indiana. Quello che importa agli elettori che si recano alle urne in queste settimane è che il prossimo esecutivo sappia affrontare le due grandi sfide che lo attendono: eliminare la corruzione e combattere la povertà. Sfide che oggi non interessano solo il governo indiano o quello dei paesi dove la democrazia è un fenomeno relativamente recente; il che ci dovrebbe far concludere che, comunque si giudichi la natura della democrazia indiana, tra i requisiti che qualificano e legittimano questa forma di governo non vi è la capacità di mettere fine alle iniquità sociali o eliminare i gruppi di potere che profittando di tali ingiustizie si arricchiscono.