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Il sindacato è politico?

Paolo Pombeni - 26.02.2015
Maurizio Landini

C’è una cosa su cui Landini ha incontestabilmente ragione: il sindacato è inevitabilmente un attore politico. Quel che si può e si deve discutere è di quale genere di attore politico si tratti.

Nel nostro paese la querelle ha una storia lunga. La famosa rottura dell’unità sindacale nel 1948 si consumò proprio, almeno ufficialmente, sulla questione se il sindacato dovesse o meno inserirsi attivamente nelle lotte politico-partitiche in senso stretto. L’anima comunista della CGIL, che era un pezzo strutturale del PCI, sosteneva ovviamente di sì. Coloro che diedero poi vita alla CISL, cioè la componente che veniva dal sindacalismo sociale cattolico, aveva una visione diversa e si ispirava, al netto di un po’ di retorica vetero-solidaristica, all’esempio del sindacalismo anglosassone (in specie statunitense), quello che vedeva nel sindacato la controparte all’organizzazione economico-industriale della produzione di ricchezza.

In realtà per tanti aspetti per lunghi anni i due spezzoni marciarono divisi e colpirono uniti, per usare un vecchio slogan. Era difficile fare politica a tutela del lavoro senza operare scelte di intervento nella politica economica, e questo cercarono di fare tanto i leader migliori della CGIL (Di Vittorio, Lama, Trentin, tanto per citare) quanto quelli della CISL (da Pastore a Carniti, anche qui tanto per citare). Neppure sul piano del sostegno al partito di riferimento ci furono divisioni così sostanziali. Certo la CGIL fu più disponibile a funzionare come costola del PCI, ma i “sindacalisti” non furono una componente irrilevante della DC (si pensi anche solo al primo Donat Cattin, che fu poi quello che, come ministro del lavoro, portò a termine l’operazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1969).

Il fatto è che oggi quel mondo di riferimento non esiste più e questo non è un fatto secondario. Il sindacato, più o meno orientato su logiche di collaborazioni unitarie, si era nel frattempo guadagnato un ruolo da “partito della nazione” proprio nella crisi progressiva dei partiti. Molti storceranno il naso di fronte a questa definizione, ma era così. Infatti perché i sindacati partecipavano alla “concertazione”? Perché si erano accreditati come i rappresentanti di un “interesse generale” del paese che giusto non arrivava ad includere solo i più grandi capitalisti (ma era, si capisce, poca roba). Qualcuno ricorda gli slogan della “alleanza dei produttori” e roba simile?

Questa percezione di sé del mondo sindacale, che era a metà fra una rappresentazione ed una narrazione, è andata in crisi sia con il disintegrarsi delle sigle sindacali in molti settori sia con l’oggettiva difficoltà in tempi di gravi turbolenze economiche di mettere insieme gli interessi di componenti del mondo del lavoro subordinato molto diverse tra loro.

Renzi in questo caso appare come il classico ragazzo che ha il coraggio di gridare che il re è nudo, per citare la notissima favola di Andersen. Di fronte a confederazioni sindacali che rappresentano ortmai solo una fascia della popolazione, cioè quelli che hanno un lavoro e neppure tutti quelli, che difendono per non perdere tessere molti privilegi che non appaiono più concepibili (certo più nel pubblico impiego che in altri settori, ma è facile fare di ogni erba un fascio), il presidente del consiglio non ha avuto difficoltà a “cambiare verso”.

Maurizio Landini prende atto con una certa intelligenza di questa svolta e propone di ritornare sul terreno della “politica”, perché è lì che può sperare di ricompattare truppe che devono mettere insieme lavoratori che si sentono meno tutelati, disoccupati che non sperano più in un lavoro, protestatari di varia natura e confessione che cercano un mito “di sinistra” per darsi un ruolo nell’angoscia che li pervade di fronte al cambiamento in atto.

Giustamente egli si sottrae alle sirene di chi vorrebbe spingerlo a fare direttamente il mestiere del politico, cioè a fondare un partito o a fare qualcosa di simile. Ha visto benissimo come è finito Cofferati e non ha alcuna intenzione di dare un ruolo ai vari Fassina, Vendola e Civati. Ha piuttosto davanti l’esempio di Grillo (lo diciamo senza intenzione offensiva): uno che sta fuori e che “chiama alle armi” un popolo di cui conosce gli umori e sa come stuzzicarli e cavarne un impatto elettorale. Ogni volta che riuscirà a compattare le sue schiere spera di costringere chiunque sia al governo a fare i conti con lui, mentre se sedesse in parlamento in un partito dovrebbe fare alleanze e compromessi per contare (e se non li fa, Grillo docet, si candida all’irrilevanza).

Il punto che non è facile da capire è se oggi ci sia davvero spazio per una “narrazione”, o, più correttamente, per una “ideologia” che riesca a compattare questo variegato e in sé conflittuale blocco sociale. Landini è un buon attore, proprio nel senso di chi rappresenta una parte sulla scena, ma, se vuole sfuggire dal ruolo della “maschera” (fissa) nella commedia dell’arte, avrà bisogno di ottimi autori che gli scrivano i copioni.

Questi, al momento, noi non riusciamo a vederli, perché dubitiamo possano essere i vecchi menestrelli dei salotti televisivi e delle pagine della gauche caviar.