Il senso della misura non guasta …
Non per fare quelli che l’avevano detto, ma noi il rischio che Renzi finisse vittima di quella che abbiamo chiamato “la sindrome di Napoleone” l’avevamo scritto in uno dei primi numeri di “Mente Politica”. E’ quanto rischia di accadere con l’accelerazione che il premier ha dato alla rappresentazione di uno scontro virtuale (e neppure tanto) col resto del mondo. Passi per il confronto duro col sindacato, che però non andrebbe rimesso in scena e drammatizzato ad ogni occasione; passi per le denunce varie di boicottaggio alla sua opera di riformatore. La sua intemerata contro Bruxelles e la nuova Commissione Europea è però apparsa come una mossa azzardata e poco utile.
Speriamo che la Mogherini, adesso che è là, spieghi a Renzi che con queste mosse si sta mangiando il credito che si era guadagnato, perché appare invece che un coraggioso, ma consapevole riformatore, un don Chisciotte populista che non esita a speculare sull’antieuropeismo serpeggiante nel suo paese. L’Italia non ha certo bisogno di questo, soprattutto perché è bene non si illuda che in uno scontro di quel tipo troverebbe chissà quali sostegni nei partner. Junker non è Barroso e la situazione economica è talmente seria che di tutto c’è bisogno tranne che di perdere in credibilità con i mercati internazionali.
Oggettivamente è comprensibile che il premier senta tutta l’ansia del passaggio stretto che si trova di fronte da qui a fine anno. Il suo obiettivo, ma direi anche la sua necessità visto come si combinano le varie scadenze, è che da qui a fine dicembre passino tre provvedimenti: la legge sul lavoro e quella di stabilità in maniera definitiva; la riforma elettorale almeno nella nuova versione che si sta impostando alla Camera, perché sembra difficile che entro quella data possa passare anche al Senato dove deve tornare (considerando anche la difficile gestione di quel ramo del parlamento).
Bisogna però chiedersi se davvero il modo migliore per affrontare questo delicato passaggio sia puntare ad una tecnica di sfondamento. Come si è detto più volte Renzi ha bisogno di costruire una solida base di fiducia nel paese e questo è un obiettivo che non si raggiunge così facilmente. Certo non c’è bisogno per questo che ceda a tutte le lobby e le confraternite che popolano ancora il mondo di una politica che, per usare una terminologia sua, ha “cambiato verso” solo fino ad un certo punto (e piuttosto malvolentieri). Tuttavia sarebbe buona strategia non eccedere in scontri corpo a corpo, che disorientano il paese e soprattutto creano aspettative di soluzioni miracolistiche che sono impossibili da ottenere.
Sia in tema di lavoro che in tema di finanza pubblica i passaggi scivolosi non mancano e non è affatto detto che ottenere di mettere sulla carta di una legge qualche parola forte dia poi risultati di cambiamento apprezzabili.
Soprattutto la questione della legge elettorale è molto delicata, perché si tratta di materia sia difficile da far capire alla gente (per cui si presta a tutte le manipolazioni immaginabili nel trasmettere le informazioni), sia esplosiva per una classe politica disorientata che teme moltissimo per il suo futuro.
La questione del premio alla lista anziché alla coalizione con un quorum in sé ragionevole, il 40% dei voti, potrebbe non essere indigeribile, a patto che fosse legata ad un connesso quorum della partecipazione elettorale: quel tetto va bene se vota almeno il 70% o giù di lì degli aventi diritto; sotto rischia di apparire man mano che il quorum si restringe come la dittatura di una minoranza. Difficilissimo lo scoglio per individuare il sistema con cui si restituisce al cittadino un margine di scelta nella indicazione del suo rappresentante: le preferenze presentano molti problemi (corruzione, dominio di chi ha accesso ai media, ecc.); le liste bloccate di questi tempi perpetuerebbero il sistema del conferimento della rappresentanza ai pretoriani dei vari gruppi dirigenti dei partiti.
Far intrecciare una questione così delicata con le discussioni della legge sul lavoro e di quella di stabilità non sappiamo quanto sia prudente: le manovre, in alcuni casi disperate, degli avversari del tentativo di Renzi di crearsi lo strumento per rinsaldare il suo potere sarebbero destinate non solo ad aumentare, ma a diventare spericolate. Di nuovo un parlamento ingovernabile non è quello che ci si può augurare per affrontare un passaggio economico che non è prudente rinviare a data da destinarsi.
Il premier è sordo agli inviti a circondarsi di un sistema di consenso legittimante, inviti che gli vengono da molti che pure vedono con favore il suo disegno di svecchiamento del paese e di sfida alla crisi in cui ci troviamo. Eppure per fare una riforma vera non bastano né il consenso elettorale, né quello dei sondaggi, né quello degli amici politici fidati: ci vuole quello di una vera “opinione pubblica”, che è formata da tutti coloro che sono accettati per autorevolezza e per credito come capaci di interpretare gli interessi di lungo periodo del paese.
di Paolo Pombeni
di Gabriele D'Ottavio
di Leila El Houssi *