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Il gioco si fa duro?

Paolo Pombeni - 02.10.2014
Massimo D'Alema e Matteo Renzi

Che cosa pensare della direzione del PD del 29 settembre? Renzi ha messo in scacco la vecchia guardia o è ancora una faccenda in itinere? Andiamo verso una normalizzazione della vita parlamentare o si prepara quanto meno una pericolosa frattura?

Sono tutte domande legittime e ragionevoli alle quali non è facile dare risposta, ma si può almeno tentare di ragionarci intorno.

Innanzitutto va notato che Renzi è riuscito ad attirare la vecchia guardia nella sua trappola: ha fatto recitare a loro la parte che la nuova commedia dell’arte assegnava a ciascuno. Così D’Alema ha fatto la sua caricatura di saputello sarcastico che vuol dispensare lezioni a tutti, Bersani quella dell’anziano che chiede rispetto ai giovani intemperanti (scambiando, infelicemente, critiche anche pesanti alla sua gestione politica per una “macchina del fango”), Civati quella dell’ideologo strabico che vede dappertutto “cose di destra”. Non stupisce che Renzi abbia considerato queste performance, impietosamente trasmesse non solo in streaming, ma dagli schemi di La 7, tutti punti a suo favore.

Tuttavia rimane da vedere se il consenso travolgente raccolto in quella sede sia sufficiente a garantire il proseguimento dell’esperimento di Renzi. D’Alema non si è trattenuto dal sottolineare che ci sarebbe una certa disaffezione delle elite verso una politica che viene presentata come leggera e fatta solo di annunci. Ciò è vero solo in parte. Indubbiamente vi sono centri decisionali della società (il termine “poteri forti” è roba da fumetti) che spingono per ottenere di più dall’attuale presidente del consiglio, ma perché pensano che potrebbe usare meglio il potere che ha, non perché pensino di farlo cadere. Sanno benissimo che in questo momento sarebbe una mossa suicida per il paese.

Certo Renzi per riuscire a sfondare ha scelto una tattica di assalto all’arma bianca: tenere alto il livello dello scontro gli serve per ingigantire le sue vittorie e minimizzare la lentezza dei successi della sua politica. Quel che è da vedere è se attizzare di continuo il fuoco dello scontro non comporti dei rischi.

Il più grosso è ovviamente che si metta in crisi la sua maggioranza parlamentare. Qui la questione non è solo quella dei voti che può raccogliere al Senato sul jobs act, ma come saranno composti quei voti che possono farlo passare. Se infatti la maggioranza governativa non sarà autosufficiente e dovrà ricorrere al soccorso azzurro di Berlusconi, si porrà il problema classico del “ribaltone”: o andare alla formazione di un nuovo esecutivo che poi ottenga la fiducia o rassegnarsi alle elezioni anticipate. Il rischio non è affatto teorico, perché per far saltare la maggioranza basta un pugno relativamente piccolo di irresponsabili, addirittura sarebbero sufficienti un po’ di assenze strategiche che vengano rimpiazzate con voti di FI. Visto il clima che c’è in giro, considerando l’arroccamento della CGIL che punta a costringere dietro di sé gli altri sindacati, non è che ci sia poi gran carenza di irresponsabili.

Aggiungiamo un dato che ci pare venga attualmente lasciato da parte: presto Renzi dovrà affrontare il tema di un possibile rimpasto di governo. La ministro Mogherini andrà a novembre definitivamente a Bruxelles e quanto meno quella casella dovrà essere riempita con un nome nuovo. Data la delicatezza della posizione, specie di questi tempi, non è certo una banalità. Secondo molti questo cambio obbligato dovrebbe però spingere a rivedere alcune altre posizioni, visti anche i mutamenti che sono intervenuti nella geografia politica. Dunque si profila un passaggio che solletica tradizionalmente le peggiori velleità della classe politica.

Questo per non parlare dell’impasse sull’elezione dei giudici costituzionali, del problema delicato di sostituire il membro del CSM eletto senza che sussistessero le qualifiche previste, del tema che è alle porte,  le elezioni amministrative della prossima primavera con scelte non facili né banali per le maggiori candidature (un tema che andrebbe affrontato in maniera più seria di quanto si sia appena fatto in Emilia Romagna).

L’aggrovigliarsi di queste scadenze, che sono del genere che davvero scatena le ansie e le velleità della classe politica, non mette il premier in una posizione particolarmente confortevole. La necessità di varare la legge finanziaria in un contesto di questo tipo è un altro scoglio non da poco, considerando che si tratta di un’ulteriore occasione in cui si scatenano i vari lobbismi, sirene a cui i parlamentari faticano a resistere quando sono alle porte possibili terremoti elettorali.

Sono tutti segnali piuttosto preoccupanti, che dimostrano quanto il gioco si stia facendo duro per Renzi. E anche se, conoscendo la sua psicologia, sarà tentato di rispondere con la battuta che è allora che i duri cominciano a giocare, sarebbe opportuno che valutasse attentamente la situazione che ha davanti. La concentrazione sulla sua posizione personale in questa lotta gli fa perdere di vista il fatto che il premier è anche il direttore di una squadra, che deve funzionare nel suo complesso: e su questo fronte ha un bel po’ di lavoro da fare.