Il Front National tra passato, presente e futuro
Il voto europeo rappresenta per il FN una grande opportunità, non senza però qualche rischio. Da un lato Marine Le Pen può continuare la sua marcia trionfale apertasi con lo storico 17,9% del I turno presidenziale del 2012 e proseguita con i buoni risultati delle municipali di fine marzo. D’altra parte il voto europeo è storicamente complicato per il FN. Chiedere il voto per eleggere rappresentanti all’interno di istituzioni che si vorrebbero scardinare e sostanzialmente chiudere non è semplice. Più in generale il voto di domenica fornirà indicazioni importanti sull’evoluzione di un partito che è lo specchio nel quale si riflettono aporie e carenze del modello francese.
Le radici del successo
Quando Jean-Marie Le Pen ad inizio anni Settanta decide di trasformare quella sorta di lega paramilitare e fascisteggiante di Ordre Nouveau nel Front National non ha chiaro l’itinerario complessivo, ma è consapevole che l’aprirsi della crisi della società del benessere offre potenzialità non indifferenti ad un movimento politico contestatario e anti-sistema. Se nella prima fase il FN è lacerato e non sa se scegliere o meno il “gioco democratico”, ci pensa Bruno Mégret a tramutare gli anni Ottanta in “anni eroici”. Come afferma all’epoca il numero due del partito Jean-Pierre Stirbois il FN si candida ad essere “il partito della crisi”. Ben presto il FN impone al dibattito politico transalpino i temi della sicurezza, della necessaria riduzione dei flussi migratori e delle carenze di un sistema politico sempre più chiuso nel suo autoreferenziale bipartitismo. E così giungono i successi in serie del 1984 (11,7% alle europee, punto ad oggi più alto), del 1986 (35 eletti all’Assemblée nationale, grazie al “cadeau” mitterrandiano del sistema proporzionale) e del 1988 (15% di Jean-Marie Le Pen alla presidenziale).
L’eroismo degli Ottanta lascia poi spazio ai dilemmi dei Novanta: il FN deve candidarsi alla guida del Paese? Deve entrare in quel sistema che vuole, a parole, scardinare? Mégret vorrebbe la “normalizzazione” e l’avvicinamento, almeno a livello locale, alla destra repubblicana. Le Pen opta per il rilancio identitario. La scissione del 1999 segna un punto di possibile non ritorno per il FN. Anche se giunge l’insperato ballottaggio presidenziale del 2002 (un altro “cadeau” della sinistra divisa e del pessimo Jospin), all’alba del XXI secolo il FN è in mezzo al guado. A rimetterlo in sella è la figlia del fondatore, Marine, con il suo grande pragmatismo. Da un lato riprende il lavoro di Mégret degli anni ’80-‘90: depurare il discorso FN dagli eccessi (razzismo, antisemitismo), lavorare sugli intellettuali e sulle candidature “autorevoli”, meglio se mediatiche, la cosiddetta dédiabolisation. Dall’altro sfruttare la crisi politica, economica, sociale ed identitaria, aggravatasi dopo il 2008 e ancor più dopo la crisi dell’area euro, andando a raccogliere consensi nella Francia rurale, periurbana, nei quartieri popolari delle grandi città, in larga parte laddove il PS bobo e la destra post-chiracchiana sono in difficoltà.
Il voto europeo: una tappa verso il 2017
Ecco perché dunque Marine Le Pen vive il voto europeo del 2014 come un’altra tappa, fondamentale, verso il 2017. Il suo obiettivo è certo quello di mandare un buon numero di eletti a Strasburgo (linfa vitale per un partito che ha soltanto due deputati nell’attuale Assemblea nazionale), ma ancor di più quello di accreditare una sorta di tripartitismo nel sistema politico francese.
È consapevole di poter sfruttare il diffuso euro-scetticismo che si respira in Francia. Sei cittadini su dieci pensano che l’Europa finisca per aggravare la crisi economica. I sondaggi di opinione sono peggiorati rispetto al “no” referendario del 29 maggio 2005. I francesi non hanno dubbi: l’Europa non protegge a sufficienza ed è identificata con una moneta, l’euro, che in teoria è una buona idea (73%), ma globalmente crea più svantaggi che vantaggi (54%).
Marine Le Pen sa bene però che alle europee il FN non ha mai superato la soglia dell’11% e che il suo elettorato tende a non mobilitarsi per eleggere rappresentanti presso istituzioni giudicate lontane e inutili. Ecco spiegati i continui appelli al voto lanciati dalla leader e il suo insistere su una campagna molto a sinistra (contro l’Ue sinonimo di dominio delle grandi banche, dell’austerità e della svendita identitaria agli Usa in vista della futura TTIP), alla ricerca dei delusi di Hollande e della componente popolare dell’elettorato UMP.
Il FN sa di non poter fermarsi ora se vuole candidarsi a guidare il Paese. Marine Le Pen può sfruttare la difesa puerile del processo di integrazione avanzata da Hollande (il solito moralistico “uscire dall’Europa significa uscire dalla storia”), così come il facile richiamo alla minaccia populista del Primo ministro Valls. Sa infine di poter giocare sulle insicurezze di un UMP senza una leadership chiara e senza una linea coerente sui temi dell’Europa, anche dopo il tardivo e ambiguo intervento a mezzo stampa dell’ex presidente Sarkozy.
Se, come da settimane annunciano i sondaggi, il FN sarà il primo partito domenica sera con oltre il 20%, vorrà dire che i francesi mobilitati (chissà se più del misero 40% del 2009) avranno lanciato un chiaro messaggio. Positivo per Marine Le Pen. Piuttosto negativo per l’Europa. Ancora di più per la coppia UMP-PS e per il debole inquilino dell’Eliseo.
di Paolo Pombeni
di Michele Marchi
di Gabriele D'Ottavio