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Il "dominus" della Terza Repubblica

Luca Tentoni - 30.07.2016
Sondaggi elettorali

Non è un caso che il sistema elettorale sia sempre più spesso al centro del dibattito politico: la Seconda Repubblica e la Terza (quest’ultima a maggior ragione, dati i rapporti di forza fra i partiti) hanno avuto una dinamica molto diversa rispetto alla Prima, soprattutto per il semplice motivo che dal 1948 al 1987 (lasciando da parte il 1992, per motivi che esporremo in seguito) i governi sono sempre stati sostenuti (organicamente o dall'esterno) da partiti che complessivamente potevano contare su più del 50% dei voti. Dal 1992 (quando il quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pli rimase al 48,85% alla Camera e al 46,22% al Senato ma ottenne ugualmente una risicata maggioranza di seggi, persino in un regime di proporzionale quasi pura) nessuna coalizione ha mai ottenuto almeno la metà più uno dei voti validamente espressi alla Camera dei deputati e al Senato. Nel 2001 (centrodestra - CDL) e nel 2006 (centrosinistra - Unione, ma anche centrodestra - CDL) ci furono "poli" che superarono il 49% dei voti e che forse - se si fossero mantenuti i sistemi elettorali previgenti al Mattarellum e al Porcellum - avrebbero avuto la maggioranza a Montecitorio e a Palazzo Madama per un pugno di seggi (ma non possiamo esserne certi e comunque - data l'eterogenità e la difficile tenuta di schieramenti così vasti - far durare in carica un governo sarebbe stata un'impresa ardua, come insegna l'esperienza del Prodi II nel 2006-2008). Una cosa è chiara: senza sistemi elettorali premianti la storia del Paese sarebbe stata diversa. Nel 1994 Berlusconi avrebbe dovuto ottenere il sostegno di PPI e Segni per dar vita ad un governo (oppure si sarebbe formato un centrosinistra con Progressisti e Patto per l'Italia), mentre nel 1996 il Cavaliere avrebbe potuto governare solo andando a Canossa da Umberto Bossi per chiedere il sostegno della Lega (con la quale i rapporti erano pessimi: si erano interrotti a fine '94). Nel 2001, probabilmente, il centrodestra avrebbe potuto ottenere la maggioranza (minima) in entrambe le Camere, ma sarebbe stato facile mantenerla? Nel 2006 la contrapposizione fra centrosinistra e centrodestra avrebbe verosimilmente spinto le parti ad una qualche di forma di "coalizione necessitata", mentre nel 2008 Berlusconi avrebbe dovuto chiedere i voti dell'Udc di Casini poche settimane dopo che l'aveva "espulsa" dalla vecchia CDL. Nel 2013 l'esito sarebbe stato più marcato (in senso proporzionale, togliendo seggi soprattutto al Pd) di quello prodotto dal Porcellum. In altre parole, se nella Prima Repubblica una formula di governo era - a causa del sistema elettorale - pressochè obbligata a sostenersi su una larga base popolare di consenso (preferibilmente vicinissima o superiore al 50%), nella Seconda ogni maggioranza parlamentare è stata "creata" dal meccanismo di voto. Non è un giudizio di valore: in molte democrazie occidentali i sistemi elettorali permettono a partiti con il 40-45% dei voti di conquistare la maggioranza dei seggi (in Gran Bretagna, per esempio). Ma è un dato oggettivo che, senza un meccanismo elettorale premiante, persino a Londra si dovrebbe sempre dar vita ad un governo di coalizione (cosa già accaduta nella scorsa legislatura persino in presenza del plurality system nei collegi uninominali della House of Commons). La legge elettorale ha avuto nella Seconda Repubblica - e ha ancor più oggi - un ruolo fondamentale che invece non aveva nel primo quarantennio di elezioni libere e democratiche, perchè non è più solo un elemento del sistema istituzionale, ma ne costituisce - di fatto - il motore. Il problema di riuscire a sapere "la sera delle elezioni" chi governerà si pone perchè nessuna "coalizione naturale" (cioè composta da forze omogenee o almeno non troppo eterogenee) riesce a superare il 50% dei voti da ben un quarto di secolo. In un sistema bloccato come quello della Prima Repubblica si sapeva benissimo da sempre quali partiti avrebbero sicuramente governato dopo il voto (la Dc di sicuro; i laici molto probabilmente; il Psi dopo il 1963) dando vita a combinazioni svariate ma sostanzialmente prevedibili. Ciò avveniva sia per mancanza di alternative accettabili sul piano nazionale e internazionale, sia perchè i partiti tradizionali di governo avevano abitualmente ben più del 50% dei suffragi popolari (l'unica volta che non ci riuscirono fu quando la Dc, nel 1953, tentò di giocare la carta della legge maggioritaria o "legge truffa", che però non scattò alla Camera per pochissimi voti). Il "terremoto elettorale" del 1992-1994 ha scompaginato il vecchio sistema partitico e legittimato pressochè tutte le forze politiche a governare. Se da un lato il sistema si è finalmente "aperto", dall'altro si può dire che è però esploso, nonostante i meccanismi maggioritari abbiano provato a bipolarizzare le scelte degli elettori. Ad un "muro" che prima divideva i partiti di centrosinistra (più il Pli) o quelli "dell'arco costituzionale" (col Pci) dagli altri se n'è sostituito un altro: quello fra i poli. Fino a quando, però, i raggruppamenti principali erano due e i meccanismi di voto sopperivano alle eventuali defezioni di alleati importanti assegnando comunque la maggioranza dei seggi all'alleanza più larga, compatta e competitiva (all'Ulivo nel 1996, perchè la Lega era fuori dal centrodestra, per esempio) il sistema elettorale "puntellava" il sistema politico e gli permetteva di strutturarsi e perpetuarsi. Quando un nuovo "terremoto" (quello del 2013) ha non soltanto reso ingovernabile il Senato, ma mostrato l'oggettiva esiguità dei consensi dei tre potenziali poli/partiti in lizza (nessuno dei quali pare in grado di avvicinare e tantomeno superare il 35% dei voti, evento verificatosi solo nella singola occasione delle europee 2014 quando il Pd ebbe il 40,8%) si è palesato il limite di un sistema elettorale che non può più sopperire (da solo) alle carenze di consenso delle "famiglie politiche". Lo stesso eventuale passaggio al monocameralismo (o, meglio, alla concessione della fiducia al governo da parte della sola Camera dei deputati) può "garantire" la formazione di una maggioranza parlamentare omogenea (monocolore o di partiti affini) solo in presenza di una legge elettorale che assegni alla maggiore minoranza il controllo di almeno 316 seggi a Montecitorio. In altre parole, mentre nella Prima Repubblica i consensi ai partiti di governo erano talmente elevati (maggioritari) da rendere marginale il ruolo del sistema elettorale nel quadro istituzionale, nella Seconda Repubblica quest’ultimo si è retto prima grazie a meccanismi premiali di trasformazione dei voti in seggi e ora - poichè questi non bastano più, essendosi ulteriormente frammentato il sistema dei partiti e in presenza di veti talvolta insuperabili che impediscono accordi fra diversi attori politici - lo stesso passaggio al monocameralismo (volto ad impedire la formazione di maggioranze contrastanti fra i due rami del Parlamento) rischia di non servire a molto in assenza di una legge elettorale che diventa il vero dominus del sistema. È per questo motivo che le forze politiche si occupano quasi più dell'Italicum che della revisione costituzionale: il futuro del sistema politico e le sorti di leader e partiti dipendono in parte non irrilevante non più da un elettorato "plurale, contrapposto e disperso" ma dal meccanismo che trasforma voti (minoritari) in seggi (maggioritari).